Conjure Utopia

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Odio scrivere. Lo odio con la testa e lo odio con la pancia. Scrivo solo perché sono costretto.

Odio scrivere per tanti motivi.

Odio scrivere perché le parole non sono fatte per essere messe in fila, su una pagina. Le parole appartengono al momento in cui vengono dette, pensate, condivise. Metterle su una pagina è un atto di violenza narcisistica, come mettere i fiori recisi in un vaso. Le parole poi, non sono fatte per essere messe in linea. La pagina ti limita.

Le parole, fuori dalla pagina, sono più libere. A volte vanno messe in ordine, ma raramente la pagina, il libro, il documento sono la forma migliore. Scrivere per comunicare qualcosa, sia un concetto ricco, complesso e astratto, sia un’emozione diretta, profonda, sconvolgente, è una stupidaggine. Come fare cena guardando su Instagram la recensione di un ristorante.

La struttura del pensiero, del linguaggio, è inadatto a stare in una pagina. Nel mondo reale, le parole non si presentano in linea, una dopo l’altra, come cocainomani in fila per il bagno. Le parole accadono quando devono accadere e noi le viviamo lì dove accadono. Non dico che le parole non debbano mai essere scritte e lasciate lì, dove sono spuntate. Tuttavia, un minimo di riguardo e di rispetto per il contesto che le ha generate sarebbe dignitoso da parte di chi le riduce a testo.

Sicuramente non sono in sequenza nella mia testa, le parole. Il massimo che posso concedervi è quando le parole prendono la forma di dialoghi interiori, ma non sono comunque in linea. Esistono sempre in uno stato di sdoppiamento: la parola dal lato di chi la proferisce (io) e dal lato di chi la ascolta (sempre io, è la mia testa d’altronde).

Quindi odio scrivere, perché non ho particolarmente in odio le parole e quindi mi sembra brutto incatenarle a un foglio. Che poi, un foglio… ormai non hanno neanche più la dignità della calligrafia. Cambi font e cambia la forma delle catene.

Odio scrivere anche per un altro motivo. Per scrivere bene serve tempo e spesso il mio corpo cede prima di aver finito di scrivere. Oramai non scrivo quasi più nulla che non possa essere iniziato e finito in una sola seduta. Ciò che scrivo è già completo prima di guardare lo schermo bianco e iniziare a battere sui tasti. L’alternativa è inconcepibile. Posso tollerare di alzarmi dalla sedia senza aver finito di stendere un articolo, ma non posso tollerare di sedermici di nuovo e riprendere da dove avevo lasciato. Probabilmente è lo stesso motivo per cui raramente finisco film o videogiochi lasciati a metà. Che è anche un po’ il motivo per cui non guardo più film e non giochi più videogiochi con una trama.

Odio scrivere, quindi questo post finisce qui.

ChatGPT non è più raggiungibile dall'Italia. Il Garante Privacy nella giornata di ieri ha disposto una sospensione del trattamento dei dati poi implementato dalla piattaforma in forma di blocco totale all'accesso al servizio. Questo intervento di buon senso e perfettamente in linea con gli interessi dei cittadini e dei lavoratori, nonché con la legge, ha gettato nel panico e nella disperazione numerosi boomer tecno-soluzionisti che hanno iniziato a gridare al complotto, al sabotaggio del paese, all'odio per il progresso. La reazione scomposta di ChatGPT e il suo blocco del servizio comunicato male ha peggiorato la situazione.

Data la quantità immensa di bestialità che stanno venendo dette, sia sul fatto in sé, sia su ChatGPT, sia sulle implicazioni, ho deciso di fare un reality check, scritto in fretta e furia, a chi negli ultimi mesi si è ubriacato di ChatGPT e sragiona in preda al fervore mistico.

Cominciamo:

  • ChatGPT non è in regola col GDPR: lo so che siete abituati bene con Facebook, AWS, Azure, Google Cloud e una marea di servizi americani che violano il GDPR ma hanno troppo peso politico per essere bloccati. Questo ha creato l'impressione che le aziende americane possano violare bellamente il diritto Europeo. Il blocco a ChatGPT è la norma, non l'eccezione. Abituatevi. Non c'è nessun complotto e nessun interesse occulto. Il Garante sta facendo il suo lavoro.

  • ChatGPT non è “il progresso”: chiunque pensi che il progresso sia inevitabile e sia, incidentalmente, quello promosso da uno sparuto gruppo di CEO tech americani, è un vostro nemico. Lo è perché gli interessi di questo microscopico gruppo di persone sono in aperto conflitto con gli interessi di cittadini, lavoratori, ecosistemi naturali, società, comunità e in ultimo dell'umanità intera. La loro ideologia giustifica qualsiasi bruttura e violenza in nome di quello che loro rappresentano come “progresso inevitabile”. Incidentalmente questo progresso combacia con un mondo dove gli utili delle loro aziende crescono. Smettete di prendere seriamente chiunque parli non ironicamente di Progresso con la P maiuscola. Una truffa a cui ormai credono solo i boomer, che tra l'altro mi sembrano essere anche la maggior parte di quelli che si sbracciano contro questo blocco.

  • ChatGPT non è fondamentale per la produttività: se ChatGPT ha portato un incremento di produttività sul vostro posto di lavoro, vuol dire che la vostra organizzazione ha dei problemi molto seri. ChatGPT può solo generare rumore, per sua stessa natura. Non può creare nulla di nuovo, non recupera informazioni, non produce nulla. Può trasformare le informazioni in rumore e, a volte, rimuovere il rumore dalle informazioni riassumendo o riscrivendo il testo. Se questo è utile alla vostra organizzazione, c'è un problema perché significa che i vostri flussi di informazioni, la vostra cultura organizzativa, le vostre pratiche di comunicazione, i vostri processi sono incasinati. È illusorio pensare che la ChatGPT migliori la produttività. Non lo farà. Aumenterà solo la quantità di rumore che un'organizzazione può tollerare senza ricorrere a una riprogettazione. Alcuni di voi si stanno illudendo che la loro produttività stia aumentando perché la vostra realtà lavorativa tollera un alto grado di rumore, inefficienza o, come direbbe David Graeber, “bullshit”. Con ChatGPT state vivendo un temporaneo sollievo da questo rumore, ma siete nell'occhio del ciclone: presto una quantità decuplicata di rumore vi colpirà, arrivando da tutti i vostri colleghi che useranno e abuseranno di ChatGPT per produrre e-mail, presentazioni, linee guida e documenti senza senso. State vivendo, per un breve momento, la realtà quotidiana degli ambienti di lavoro ben organizzati e ben progettati. Abbandonate ChatGPT e abbracciate il design organizzativo.

  • Bloccare ChatGPT non ci farà “rimanere indietro”: come detto poco sopra, ChatGPT non è particolarmente rilevante per la produttività di un'azienda sana. Lo stesso si può dire del paese nel suo complesso. Molti sembrano disperati perché questo blocco comprometterà in qualche modo il benessere del paese. Ovviamente chiunque capisca un minimo come funziona l'adozione di una tecnologia sa benissimo che ChatGPT finora è stato poco più di una scoreggia per il sistema produttivo italiano, però sventolare un presunto interesse nazionale è uno strumento retorico, abbastanza a buon mercato, per difendere la propria app preferita. E se l'interesse nazionale, un'astrazione che comunque non condivido, fosse meglio difeso dal blocco? Ogni tecnologia andrebbe adottata solo se i benefici superano i danni. Nel caso di ChatGPT e OpenAI, il cui obiettivo primario dalla fondazione era danneggiare i competitor rilasciando strumenti di ricerca in open source e non creare prodotti mirati a servire l'interesse comune, questi danni sembrano essere nettamente superiori ai benefici. Furti, leak di dati, bias e discriminazione, informazioni false e pericolose, danni al sistema educativo, inquinamento informativo della sfera digitale, costi ambientali e probabilmente tanto altro che osserveremo solo su un periodo più lungo sono tutti elementi che vanno pesati quando decidiamo di difendere a spada tratta quel generatore di cover letter, sviluppatore di codice buggato e riassuntore di email che è ChatGPT. Nessuna tecnologia è inevitabile. Se la pensate diversamente, vi invito a costruire con l'amianto, curarvi col talidomide e l'eroina o a mettere clorofluorocarburi nei vostri spray. Inoltre ChatGPT non è l'unico LLM con interfaccia discorsiva (o “AI Relazionale” come la chiama chi non si vergogna a chiamare questi sistemi “intelligenze”): ne esistono numerosi, più sicuri, più efficaci. Se pensate che il blocco di ChatGPT vi faccia “rimanere indietro”, probabilmente siete già indietro perché sono anni che nell'industria o a livello personale questi strumenti trovano spazio nei processi produttivi.

Questo dibattito abbastanza scomposto sul blocco di ChatGPT sta facendo emergere il peggio dell'ideologia tecnosoluzionista, portando i suoi aderenti a esternazioni estremiste e di pancia e facendo da cartina di tornasole sulla pervasività di questa logica perversa. Tuttavia sta anche mostrando quante persone sono contente di questo blocco, credo la maggioranza di chi si interessa al tema. Prendiamola come un'occasione per contarci e per mettere in discussione l'infiltrazione di concetti osceni come l'inevitabilità di una data tecnologia, l'equazione tra introduzione di una tecnologia e il “Progresso”, l'associazione tra processamento di informazione ed efficienza e tutti gli altri dogmi propugnati dalla cricca di californiani sotto Adderall. Gli LLM nei prossimi mesi saranno un terreno di scontro ideologico, politico e sociale accesissimo, in quanto nuovo macrotrend spinto dal capitale digitale americano dopo che il Web3 si è rivelato una montagna di fuffa. Siamo pronti?

Attenzione, è sempre poca. Attenzione, la vogliono tutti.

Vuoi la tua, per fare ciò che non riesci a fare. Vuoi quella degli altri, per dormire la notte.

Ma la vuole anche il tuo Instagram, il tuo TikTok. La vuole Zuckerberg, la vuole Nadella, la vuole Yiming. La vuole anche la vernice di Ultima Generazione.

Attenzione vuol dire dati e dati vuol dire soldi. L'attenzione è il nuovo petrolio e tu sei il pozzo. Non devi sorprenderti se l'ansia ti trivella la testa.

Attenzione: sarò breve, per non sprecarvela.

Senza attenzione siete più deboli. Lo dice il boomer sessantottino con la vignetta, lo dice la ricercatrice di social media con il report, lo dice chi cerca di salvare le persone dalle sezioni commenti e portarle a fare politica.

L'attenzione vale e voi ve la lasciate rubare dal primo che passa. Disattivate Facebook ma poi vi sparate otto ore di Netflix. Non è svuotando le vostre serate che vi libererete, ma riempondole.

Ci sono migliaia e migliaia di spacciatori con una laurea in economia, informatica, design. Sono collegati direttamente al vostro sistema nervoso. La vostra forza di volontà non può competere.

Ve l'hanno già detto tutti e lo sapete, lo sapete che vi fa male, però hai lavorato tutto il giorno, hai litigato col capo, te lo meriti di staccare, di indulgere e quindi via di S12E07/E08/E09 e un'altra serata è andata. Dio ti ama, ma l'autodistruzione fa quella cosa lì con la lingua...

Come tutte le dipendenze, non si risolve con la rinuncia e nemmeno con le buone abitudini di una volta: “sempre davanti a quello schermo? vai un po' fuori e vedi che ti passa” ma fuori c'è l'inferno.

Vuoi smettere? Vuoi smettere davvero? Riempi il tuo tempo di significato. Le case sono il modo in cui abitiamo lo spazio. I riti sono il modo in cui abitiamo il tempo. Ritualizza la tua attenzione. Abitala. Solo così puoi liberare il tuo tempo senza amputarti i social.

La tua attenzione è un campo di battaglia. Il tuo tempo è un campo di battaglia. Da una parte la Macchina che vuole misurare i movimenti delle tue pupille tramite uno schermo, dall'altra il Collasso che urla a pieni polmoni che sta venendo a prendere te, il tuo schermo e tutto ciò che hai di più caro. Tu però il Collasso non lo senti perché nelle cuffiette c'è TikTok che canta:

You own me, please use my body I don't want your love I want your cum Don't want your love I want your cum

Ormai anche i meno consapevoli si sono accorti che le startup raramente seguono l'andamento del mercato: l'umore degli investitori conta molto di più e se la recessione tarda ad arrivare, pazienza! Si taglia comunque.

Da circa sei mesi il settore tech sta venendo falcidiato da licenziamenti di massa, sia in ambito corporate che startup. Con i grandi nomi tipo Facebook, Amazon e Twitter che hanno dato il segnale, i venture capitalist di tutto il mondo hanno iniziato a fare pressione sulle loro startup dettando una linea molto chiara: i lavoratori tech guadagnano troppo. Sia quelli strapagati in California, sia quelli che arrivano arrancando alla fine del mese. Vanno messi in riga e per farlo, bisogna operare licenziamenti di massa e fare pulizia.

Nel mezzo di queste manipolazioni del mercato del lavoro ci siete voi, che speravate di essere sfuggiti al tritacarne della consulenza e vi siete fatti in quattro per una startup che consegna tappi per le orecchie a domicilio. Sempre meglio che fare slide fino alle 9 di sera.

Magari potete essere come i tech worker di Casavo che ne ha lasciati a casa il 30% oppure potete essere ancora ignari della tempesta che sta per arrivare nella vostra azienda.

In ogni caso è importante capire il modello, che io chiamo “licenziamento da cowboy”, con cui vengono svolti questi licenziamenti di massa, tanto in USA quanto in Italia o nel resto d'Europa. I tratti sono molto simili ed è chiaro che il grosso delle aziende sta convergendo circa sulla stessa strategia.

Vediamo di capire, in parole semplici, come funziona il “licenziamento da cowboy”.

1) A ciel sereno il CEO pubblica un post su LinkedIn e magari su qualche giornale che gli fa la marchetta dicendo che taglia il 10/20/30% della forza lavoro. 2) Contemporaneamente o poco dopo indice una call con tutti i dipendenti ripetendo quello che c'è scritto sui giornali. Chiarisce qualche dettaglio ma non specifica esattamente chi è impattato dai licenziamenti. Questa incertezza è ambiguità è fondamentale per creare incertezza e insicurezza nella psiche del lavoratore. 3) Iniziano colloqui uno a uno o team per team in cui viene comunicato chi è impattato e viene offerta una buonuscita in cambio della rinuncia a qualsiasi diritto e tutela. Questa in gergo, in Italia, si chiama “intimidazione” ed è illegale. A volte è condotta con le buone, a volte con le cattive. L'obiettivo però rimane lo stesso: aggirare le leggi nazionali sui licenziamenti collettivi e convincere i lavoratori ad accettare la buonuscita. 4) Si dà una deadline molto breve per sfruttare il senso di paura e incertezza del lavoratore e far sembrare le mensilità offerte come un favore, impedendo al lavoratore di farsi troppi conti in tasca e capire effettivamente cosa gli conviene. 5) A seconda di come viene condotta questa strategia intimidatoria, a seconda del livello di organizzazione dei lavoratori e a seconda di vari altri fattori, più o meno persone firmeranno questo accordo privato e procederanno a lasciare l'azienda. Quelli che non firmano, a seconda di quanti sono, potrebbero andare incontro a un processo di licenziamento individuale o collettivo. 6) Durante questi processi possono succedere cose diverse a seconda della presenza sindacale, della consapevolezza dei lavoratori e a seconda della volontà dell'azienda di farla sporca. 7) Il tutto quindi può concludersi con un reintegro, un licenziamento collettivo con tutte le tutele del caso o qualche accordo porcheria mediato da un sindacato di comodo che si presta a firmare condizioni svantaggiose per i lavoratori.

Capito un minimo il meccanismo, come tutelarsi?

  • Formate una rappresentanza sindacale il più presto possibile, prima che i licenziamenti vengano annunciati. Quando i buoi sono scappati, è inutile chiudere la stalla. La rappresentatività sindacale fa la differenza in questi casi e prevenire è meglio che curare.
  • Convincete quanti più colleghi possibile a non firmare l'offerta. Firmare la prima proposta è pressoché sempre sconveniente.
  • Comunicate chiaramente ai vostri colleghi cosa sta succedendo, la strategia dell'azienda (come descritta in precedenza) e metteteli in guardia da tentativi di manipolazione psicologica da parte dei manager o degli HR.
  • Non fidatevi mai delle informazioni fornite dai manager o dagli HR sui vostri diritti, sopratutto se in forma verbale. Vuoi per ignoranza, vuoi per malafede, è estremamente comune che vengano omesse informazioni importanti o fornite informazioni completamente sbagliate.
  • Se c'è una rappresentanza sindacale in azienda, entrate in contatto e offrite il vostro supporto per organizzare azioni e assemblee al fine d'informare i vostri colleghi su cosa sta succedendo e per capire se l'azienda sta operando in linea con la legge.
  • Se non c'è una rappresentanza sindacale, prendete l'iniziativa e contattate un sindacato competente per il vostro CCNL e la vostra zona, spiegando l'urgenza della situazione e offrendo la vostra disponibilità a raccogliere un gruppo di lavoratori per un'assemblea conoscitiva.
  • Se non avete nessun tipo di esperienza, valutate di contattare organizzazioni come Tech Workers Coalition per ricevere supporto.

Spero che questa guida possa esservi utile a navigare questo periodo di crisi e incertezza. Ricordatevi: nessuno si salva da solo.

A ogni release di un qualche modello generativo tipo GPT-3, riparte l'ansia di studenti e lavoratori sulla validità del loro percorso professionali e di studio.

Per chi non lo sapesse, da alcuni anni vengono offerti servizi di generazione o auto completamento che, a partire da un prompt testuale, generano pezzi di codice da includere nella vostra code-base.

Chi ha una comprensione superficiale dell'informatica va quindi in panico, scambiando questa imitazione per un reale processo di sviluppo software.

Un'AI può sostituire un programmatore?

Ci ruberanno il lavoro?

Ha ancora senso studiare informatica?

Risposta breve: no, smadonnate tranquille sugli errori di compilazione in Rust o sulla sintassi di YAML, che SkyNet non sta venendo a mangiarvi.

Una trattazione esaustiva degli aspetti tecnici e sociali dell'automazione nel settore tech va ben oltre l'ambizione di questo articolo, ma vediamo di fissare alcuni punti.

Partiamo con qualche riflessione su lavoro e automazione:

  • Il lavoro è qualcosa che voi date a un'azienda o a un cliente in cambio di soldi. Se date del lavoro e l'azienda non vi paga, quello è rubare il lavoro.

  • L'automazione, nel nostro sistema produttivo, non porta a una riduzione del carico di lavoro o delle persone impiegate. Nonostante tutti i progressi tecnici degli ultimi decenni, lavoriamo molto più dei nostri genitori. L'automazione però può portare a una precarizzazione del lavoro, a una maggiore ricattabilità del lavoratore e a un abbassamento degli stipendi. Questo però lo fanno gli imprenditori e le politiche economiche dei governi, non le macchine.

  • L'adozione di determinate tecnologie non è mai inevitabile ma è sempre una scelta di chi le adotta. Questi modelli generativi sono macchine senza una volontà propria. Le conseguenze della loro adozione sono responsabilità di chi sceglie deliberatamente di adottarle.

Vediamo ora qualcosa di più specifico su questi strumenti:

  • Al momento queste soluzioni non sono in grado di generare risultati affidabili. Ciò significa che una persona che non è in grado di comprendere il codice generato non dovrebbe usare questi strumenti per scrivere codice che andrà in produzione. Verrà fatto lo stesso? Sì, d'imbecilli ne è pieno il mondo ma probabilmente al primo bug che gli costa milioni di euro in danni, la smetteranno.

  • Scrivere codice è una frazione relativamente piccola del lavoro di un informatico. La comunicazione, la formalizzazione del contesto, la sintesi dei requisiti, la creazione di astrazioni, la definizione del dominio, la raccolta di informazioni dagli stakeholder, la riflessione sugli impatti sistemici di una determinata scelta, la definizione dell'architettura e tante altre attività di questo tipo non possono venire delegate ad un'IA.

  • Il miglior codice è quello che non scrivi. Abbassare i costi della stesura di righe di codice significa introdurre rumore e debito tecnico più facilmente. Non mi stupirei se un'adozione estensiva e scriteriata di questi strumenti portasse a codebase enormi in breve tempo in cui gli umani non riescono più a mettere mano.

  • Ci sono già diverse cause in corso per violazione delle licenze nei processi di training di questi strumenti. L'ambiguità legale difficilmente si risolverà in maniera favorevole a chi ha utilizzato codice free software senza chiedere il permesso. Inoltre la paura che questi strumenti generino pezzi di codice protetto da licenze restrittive rimane e il reparto legal della vostra azienda non sarà contento.

  • Storicamente il settore IT non risponde a incentivi di efficienza nel processo di produzione del codice. Non c'è motivo di credere che inizierà a farlo ora. Per questo vi rimando a chi ha studiato in dettaglio il tema.

In conclusione, è ragionevole aspettarsi che questi strumenti cambieranno il modo in cui alcune persone scrivono alcune parti di codice, nello stesso modo in cui un nuovo filtro di Photoshop permette di creare in pochi secondi un effetto che prima avrebbe richiesto minuti od ore.

Se proprio volete preoccuparvi di trend legati al lavoro e all'occupazione nel nostro settore, le opzioni non mancano. La recessione, i tagli sistematici in buona parte del settore, il deskilling fatto coi bootcamp e le academy e la precarietà che ne deriva, la repressione antisindacale spietata sempre più comune anche nell'ambito tech. Di problemi sistemici ce ne sono tanti, di trend negativi pure. Non state a crucciarvi per la minaccia di un po' di matrici troppo cresciute e guardate piuttosto alle minacce poste da quegli esseri umani che vedono come un problema il potere e i privilegi derivati dalla posizione dei lavoratori tech nel nostro sistema produttivo.

Nel corso degli ultimi anni ho ricevuto richieste di suggerimenti su come spendere il proprio tempo da persone che mi chiedevano: “ma come fai a fare tutte le cose che fai? Non ti stressi? Dove trovi il tempo?”. Rispondere esaustivamente è sempre complicato e quindi svicolo dicendo che in realtà molte delle cose che faccio non richiedono tutto questo tempo, una volta che sono avviate. Tuttavia svolgere attività cognitive in maniera efficace richiede disciplina, struttura e qualche accorgimento. Non è qualcosa che succede spontaneamente.

Ho quindi deciso di dire la mia sul tema, avendo alle spalle qualche annetto in cui sono riuscito a coniugare con soddisfazione il lavoro, la vita sentimentale, lo studio di materie tecniche, l'approfondimento di temi politici e filosofici, la stesura di diversi blog, l'attività politica in Tech Workers Coalition e marginalmente in altre organizzazioni, la creazione e gestione di diverse comunità e gruppi di studio, la palestra. Il tutto lasciando abbondante tempo per lo svago e il relax, fatto di videogiochi, club techno e buon cibo. Come vedremo in seguito, questi risultati non sono strettamente legati al mio impegno o esclusivamente una questione di merito e dedizione, ma la convergenza di tanti fattori, molti fuori dal mio controllo, che per fortuna mi permettono di avere una vita tranquilla e strutturata. Una doverosa premessa per pulire il tavolo dal dubbio che questa guida sia scritta come atto masturbatorio, come spesso accade quando certi “guru” decidono di condividere le proprie pratiche.

Di materiale sulla gestione del tempo ne esiste un'infinità, la maggior parte è spazzatura che cerca di vendere libri e corsi per offrire la speranza di trovare tempo dove non ce ne può essere, oppure per metterlo al servizio di meccanismi disfunzionali. Offrono soluzioni miracolose, oppure trucchi di qualche tipo che però quando applicati, non sembrano mai funzionare. Fa eccezione, a mio parere, il libro Deep Work di Cal Newport che ho letto alcuni anni fa e che approfondisce un buon numero delle idee che introduco in questo articolo.

Newport definisce il deep work come: “Attività professionali svolte in uno stato di concentrazione senza distrazione che spingono al limite le vostre abilità cognitive. Queste attività creano nuovo valore, migliorano le vostre abilità e sono difficili da replicare.” Il libro si concentra eccessivamente su logiche di produttività e le collega al lavoro ma, personalmente, trovo che sia solo un limite ideologico dell'autore e che buona parte dei suoi consigli siano applicabili a qualsiasi tipo di attività cognitiva intensa, a prescindere dallo scopo.

Voglio evitare di dare false illusioni ai miei lettori, che di certo non ne hanno bisogno e quindi vorrei stimolarvi con una riflessione sulla natura del tempo personale senza la quale rischierete sempre di essere vittima di materiale di self-help di scarsa qualità, dell'ansia da performance, dalla pressione che la nostra società pretende indebitamente da ognuno di noi e che tanti danni fa alla nostra psiche.

Il tempo non è tutto uguale

Ogni tanto si sente dire da qualche guru improvvisato che un giorno ha 24 ore per tutti e quindi come le usi fa la differenza su cosa riesci a fare. Questa è una cazzata. Come accennato prima, ogni persona vive in maniera diversa, ha un corpo diverso, ha una situazione abitativa e familiare diversa, ha un passato diverso e via discorrendo. Sono innumerevoli i fattori che determinano quanto tempo voi potete allocare per fare le cose che vi piacciono, per studiare ciò che vi interessa o anche solo per rilassarvi. La prima cosa da fare per costruire una routine che vi permetta di spendere il vostro tempo al meglio è evitare di fare confronti con altre persone e sperare di prendere modelli preesistenti e applicarli alla vostra realtà senza adattarli. Questo approccio è consigliabile anche nei confronti di questo stesso articolo, steso in base alla mia esperienza soggettiva e ai feedback ricevuti dalle persone che ho supportato in questi anni e con cui ho discusso questi temi.

Molto più interessante è invece imparare alcuni principi sul funzionamento del cervello umano, che, al netto di fattori di neurodiversità sempre presenti, possono aiutarvi ad allineare la vostra quotidianità ai vostri obiettivi utilizzando il tempo e le energie a vostra disposizione. Se avete un figlio, se dovete prendervi cura di un genitore malato, se avete una patologia cronica debilitante, se avete un lavoro stressante su cui non avete potere decisionale, se banalmente avete un ambiente domestico caotico, tutti questi fattori potrebbero rendere difficile se non impossibile applicare i miei consigli. Pensare il contrario vuol dire nascondere forme di privilegio che permettono ad alcune persone di avere un tempo molto strutturato e ad altre no. Non mi soffermerò qui sulle implicazioni politiche e sociali di queste ineguaglianze, ma vi invito a prenderne coscienza e gestire il vostro tempo e le vostre aspettative con la consapevolezza che vivere la produttività del proprio tempo come una competizione è un'attitudine malsana, anche e soprattutto perché sarebbe una competizione truccata.

Vediamo quindi una serie di principi che potrete adattare e comporre al vostro caso specifico e alla vostra quotidianità.

Strutturare il tempo

La prima cosa da imparare è che al tempo va data forma e colore. Dire “studio tutto il giorno” non è un buon punto di partenza. La maggior parte di noi opera meglio se il proprio tempo ha paletti chiari e ha obiettivi e scopi prefissati. Pianificare al mattino, possibilmente su carta o su schermo, una divisione della giornata per singole attività o argomenti vi solleverà dallo sforzo cognitivo di gestire l'incertezza e l'ambiguità man mano che svolgete le attività.

Dovete imporvi regole e rispettarle, anche a costo di rinunciare alla flessibilità derivata dal controllo del vostro stesso tempo. Serve una certa misura di fiducia negli effetti a lungo termine di questa pratica. Ad esempio se avete allocato due ore della vostra serata allo studio di un certo argomento ma alle 23:00 vi sentite ancora carichi per continuare, l'errore sarebbe di farlo, rompere il vincolo e dire di aver fatto tre ore invece che due. In casi di emergenza può andare bene, ma a lungo andare eroderà la vostra capacità di rispettare i vincoli e dare struttura al vostro tempo, facendovi ritornare a uno stato caotico.

Può sembrare controintuitivo poiché quando siete padroni del vostro tempo non dovete risponderne a nessuno e potete avere tutta la flessibilità necessaria per adattarvi agli eventi della giornata o ai ritmi del vostro corpo. Tuttavia questa flessibilità costa, principalmente in termini psichici. Il gesto controintuitivo da compiere è rinunciare a parte di questa flessibilità per rendere più salde la vostra capacità di suddivisione del tempo.

Io ho sempre trovato utile pensare a queste strutture come imposizione esterne su cui non ho potere. Non so quanto possa funzionare per altre persone, ma io concepisco questi e altri vincoli come imperativi che arrivano dall'alto, da un'autorità indefinita e che non mi permette di negoziare. L'autorità sono sempre io, ma in qualche modo è un altro io. Non elaborerò oltre che so già che state chiamando per un TSO.

I rituali personali

Per rispettare questi vincoli auto-imposti serve disciplina e anche la disciplina costa, tanto quanto la flessibilità. Per fortuna però abbiamo tanti modi per rendere l'auto-disciplina più semplice e tollerabile.

Abbiamo parlato nella sezione precedente della necessità di dare forma al tempo. La cosa è facile da fare su carta, assegnando ad ogni orario una specifica attività con degli obiettivi chiari, ma è più difficile da tradurre in pratica. Ci vengono quindi in soccorso i rituali personali.

Scandire un periodo con gesti e azioni precise aiuta a rinforzare la nostra percezione dello scorrere del tempo e ci aiuta a regolarizzare i ritmi. Un rituale può essere qualsiasi cosa che funzioni per voi, anche assolutamente banale, e che serva, in questo caso, a segnare l'inizio o la fine di una fase della vostra giornata o della vostra settimana.

Per esempio potete segnare l'inizio della vostra fase attiva durante la mattinata facendovi il primo caffè o una tazza di té: siete ancora in uno stato di torpore e invece di bervi il caffè assonnati al tavolo per darvi la sveglia, prendetevi il tempo necessario e quando siete pronti a partire o ad un orario preciso, tiratevi insieme e fate il caffè. Col caffè in mano, avviatevi alla vostra scrivania o al vostro tavolo da lavoro e da quel momento in poi siete in un periodo di concentrazione che idealmente si concluderà con un altro rituale, ad esempio uno snack di metà mattina. Sebbene sembri una banalità che molte persone adottano spontaneamente, non è naturale per tutti. Inoltre prendendo consapevolezza degli effetti positivi dei rituali, si possono progettare in maniera intenzionale e inventarsene e consolidarne di nuovi, sia all'interno della giornata che della settimana o del mese. Un altro esempio utile può essere un rituale da svolgere al ritorno a casa il venerdì sera come ad esempio un bagno caldo se avete la vasca o cucinare un piatto speciale che vi piace, per dare chiusura alla settimana lavorativa e l'inizio al week end, in cui non penserete al lavoro.

I rituali, come tutte le metodologie di cui parliamo qui, richiedono manutenzione ma questa necessità di manutenzione tende a calare nel tempo poiché i rituali si rinforzano, si radicano nella nostra mente e nella nostra routine fino a che non diventano quasi automatici. Rafforzandosi i rituali, si rafforza anche la struttura della vostra giornata o della vostra settimana.

Gli spazi fisici

Spesso questo tipo di guide parlano di spazi fisici concentrandosi sulla necessità di avere un luogo di lavoro ordinato, pulito, magari con un po' di piante e una buona illuminazione. Questi sono tutti elementi importanti e chi ha controllo sui propri spazi dovrebbe investire del tempo per renderli quanto più ordinati possibile. Tuttavia credo che questi fattori siano spesso sopravvalutati e presentati come cure magiche ai problemi, talvolta accompagnate a teorie bislacche sulle aragoste.

Ci interessa forse di più ragionare sugli spazi in modo diverso. Avere un'area interamente dedicata all'immersione e alla concentrazione è un elemento tanto fondamentale quanto complicato da ottenere per molti. Una situazione ideale richiederebbe una stanza intera tutta per voi e dedicata esclusivamente a un certo tipo di attività. Come per i rituali che segnano l'inizio e la fine di certe fasi del giorno, l'entrata e l'uscita dalla stanza rappresentano il passaggio verso la zona di concentrazione. Ciò permette inoltre di stabilire regole su cosa è concesso o meno nella stanza, come ad esempio portarsi dietro il cellulare.

Tuttavia la maggior parte delle situazioni abitative non permette di raggiungere questa configurazione. Avere perlomeno una scrivania propria è già un buon compromesso. Altri preferiscono avere un tavolino preferito al bar sotto casa. Altri ancora raggiungono questo mindset in spazi di coworking. Io, paradossalmente, riesco a fare questa cosa molto bene in treno o in metro, anche se raramente mi metto sui mezzi intenzionalmente solo per concentrarmi. Ognuno è diverso, ogni situazione abitativa è diversa, trovare la quadra sta a voi.

Ridurre lo sforzo mentale

Il cervello, purtroppo, è una macchina molto meno affidabile di quello che ci piacerebbe credere. Abbiamo particolare attaccamento a un'idea ingenua di funzionamento corretto del nostro cervello, fondamentalmente perché ci identifichiamo con la nostra parte conscia e allo stesso modo abbiamo il terrore delle patologie e dell'invecchiamento che possono portare a un decadimento delle nostre facoltà cognitive. Per fortuna c'è una buona notizia: il vostro cervello, già oggi, è abbastanza inaffidabile su tante cose quindi smettete di preoccuparvi di quando sarete vecchi con l'Alzheimer e imparate a convivere già da oggi coi vostri limiti.

Tutte le metodologie che abbiamo visto fino a ora, in fondo, sono un modo per supportare la vostra mente e il relativo sostrato biologico nel comportarsi in linea coi vostri desideri e obiettivi cosci. In questo processo il vostro cervello non è tanto un alleato, quanto un compagno con cui scendere a patti e da tenere in riga. La concentrazione è il risultato di una negoziazione con voi stessi in cui voi date un ambiente consono alla vostra mente per operare e in cambio non verrete disturbati dall'indesiderata intromissione di quella canzone che fa “funnee funnee monkey monkey gif funnee funeee monkey monkey gif”, dalla preoccupazione su cosa cucinare per cena o dal desiderio di rivedere una persona amata che non vedete da settimane perché è sessione d'esami. Per fortuna esistono tanti modi per scaricare su strumenti o processi i costi cognitivi che normalmente peserebbero su di voi.

Vediamone alcuni, partendo dai più banali. Tutti voi usate un'agenda, o un calendario per segnarvi gli appuntamenti presi e non doverci pensare ogni poche ore per paura di dimenticarvi. Vero? VERO? Se non è così, iniziate a prendere l'abitudine di delegare alla vostra agenda tutto ciò che ha una data e un orario e smettete di tenere le cose a mente. Controllatela alla domenica sera per ragionare sulla vostra settimana e ogni mattina per pianificare la giornata e poi dimenticatevene.

Ora, perché limitarsi agli appuntamenti? Questo processo di “delega” allo strumento, cartaceo o digitale, si può fare con tantissime cose: promemoria, idee per progetti, commesse da svolgere, piccole attività necessarie nella quotidianità. Delegando correttamente, quindi scrivendo queste cose con uno strumento affidabile e controllando la lista di cose da fare in maniera regolare e consapevole, avrete un doppio risultato: ridurrete la dispersione d'informazioni utili e ridurrete lo stress per il vostro cervello.

Prendiamo un esempio concreto: state lavorando a un capitolo del vostro romanzo personale. Un malloppone lunghissimo e pallosissimo in cui raccontate dei vostri amori passati, del vostro percorso di crescita emotiva, di come avete trovato la pace interiore iniziando un corso di Yoga e praticando l'intaglio nel legno. Una merda immonda che nessun editore vi pubblicherà mai, ma questo non ci interessa. Ci interessa invece qualcos'altro.

Mentre state raccontando di Giorgia, ragazza spigliata e brillante che vi ha prestato una penna in aula studio quando facevate il secondo anno d'Ingegneria Gestionale, decidete di farvi un tè. Andate in cucina, mettete su il bollitore, prendete una bustina di tè e aspettate che l'acqua bolla. Mentre aspettate vi sovviene che dovete prenotare una visita dal dentista per la pulizia dei denti. Ora, l'errore peggiore che potete fare è cedere alla tentazione di andare su Google a cercare un dentista vicino, con recensioni buone, alzare il telefono e chiamare. Nei 10-15 minuti necessari a fare questa cosa, avrete perso per strada tutte le cose che avevate in testa su Giorgia.

Il modo appropriato di gestire questa cosa sarebbe di scrivere nella vostra agenda o nel vostro tool per le note e i promemoria, una riga sul prenotare la pulizia dei denti. Questa attività richiede pochi secondi, sforzo mentale pressoché nullo e l'atto stesso di delegare a uno strumento affidabile, disinnescherà la preoccupazione di agire su questi pensieri la prossima volta che si presenteranno. La mattina successiva ritroverete la nota e potrete decidere di chiamare il dentista prima di mettervi a lavorare.

Distrazioni

Il meccanismo visto nella sezione precedente, in cui svolgendo un'attività vi sovviene l'idea o nasce la necessità di fare qualcos'altro, è una delle principali cause di distrazione: va riconosciuto e gestito come spiegato sopra. Prima semplicemente scribacchiando una riga da qualche parte e in seguito con sistemi più potenti, che vi facilitino l'accesso alle informazioni raccolte senza dover scavare tra lunghe liste di note disordinate. Personalmente utilizzo per tutte queste cose alcune board Notion, progettate ad hoc in base alle mie necessità. Essendo Notion un tool commerciale e closed source non voglio fare un endorsement ma tenetelo in considerazione quando inizierete ad accorgervi che volete un tool potente per gestire i vostri promemoria, eventi, attività e note in un singolo strumento che aiuti anche con la pianificazione.

Le distrazioni però non sono solamente quelle “interne” descritte in precedenza ma sono anche e soprattutto esterne. Ogni tipo di lavoro che richiede concentrazione, per definizione, è estremamente sensibile a interruzioni da parte dell'ambiente circostante. Alcune sono inevitabili ma la maggior parte possono essere eliminate o mitigate. Ragionare su cosa vi distrae e porvi rimedio, anche con scelte radicali e che vanno a impattare altre persone, è fondamentale per evitare d'impiegare mezz'ora per riprendere il filo dei vostri pensieri ogni volta che ricevete una notifica sul cellulare.

Ogni situazione è diversa e dovete essere voi a dover riconoscere le fonti delle vostre distrazioni, ponendo, magari alla sera, uno sforzo attivo nel ragionare su cosa vi ha interrotto durante la giornata. Tuttavia esistono diverse fonti di distrazione estremamente comuni che vale la pena considerare in questo articolo.

La prima sono inevitabilmente altri esseri umani. Ogni volta che vorrete immergervi nelle vostre attività partirà un biosegnale potentissimo che trasformerà l'intera umanità in un'unica coscienza planetaria con un solo obiettivo: rompervi le palle. In casa o tramite mezzi di comunicazione, per cose utili o per cose inutili, tutti vorranno mettersi in contatto con voi. Silenziare le chat, staccare il telefono di casa, stabilire limiti chiari con le persone con cui convivete sono tutte misure basilari per raggiungere l'isolamento necessario. Se non è possibile nello spazio in cui siete, potete trovarne uno alternativo come descritto in precedenza. Non sentitevi folli a prendere misure forti: è in ballo il vostro tempo e merita di essere difeso. Ovviamente cercate di comunicarlo chiaramente a chi vi sta intorno, perché è molto facile fare emergere conflitti su questo tema: negoziate il vostro tempo e ponete regole precise per evitare che ci siano fraintendimenti se decidete deliberatamente di non rispondere a una chat per alcune ore. Magari considerate di creare dei canali di emergenza se volete essere raggiunti per cose veramente urgenti.

Un'altra grande fonte di distrazione sono i device digitali, in particolare come fonte di accesso ai social media. I social media sono macchine ingegnerizzate per trasformare la vostra attenzione in soldi. La disciplina può aiutare ma è una battaglia impari: siete da soli contro orde di programmatori e designer al lavoro da anni per farvi aprire un'app anche se non volete. Anche qui, scelte radicali possono essere utili: lasciate il telefono fuori dalla stanza dove lavorate, spegnetelo, disinstallate le app dei social media. Se dovete usare un portatile, utilizzate estensioni per il browser o tool appositi che impediscano l'accesso a certi siti o limitino il tempo che ci potete passare sopra. L'obiettivo è rendere la barriera all'accesso dei contenuti che vi danno dipendenza più forte dell'impulso a distrarvi. Questo impulso, scoprirete, è molto facile da gestire quando ci provate. Doversi alzare e andare dall'altra parte della casa per controllare se avete nuove storie su Instagram spesso non ne vale la pena. Magari una volta ogni tanto succederà, ma con un gesto semplice avrete evitato di distrarvi magari alcune decine di volte. Da lì potrete solo migliorare.

Consigli di lettura

Spero con questo breve articolo di aver dato qualche spunto utile. Rinnovo l'invito a prendere questi consigli come strumenti da adattare alla vostra specifica situazione e che in nessun modo possono da soli rimediare a situazioni di scarsità di tempo dovuta a problemi personali, sociali e politici.

Vi lascio quindi con un paio di consigli di lettura. Oltre al già citato Deep Work, vi consiglio Cronofagia di Davide Mazzocco che fa il punto sul tema della politica del tempo e racconta come il tempo personale sia oggi un terreno di scontro politico e risorsa da colonizzare e sfruttare per profitto.

In questi ultimi anni avrete probabilmente letto notizie su proteste e scioperi nelle grandi aziende tecnologiche americane. Perché c'è così tanta attenzione per organizzazioni di lavoratori che producono azioni tutto sommato piccole rispetto ad esempio allo sciopero indiano che ha coinvolto circa duecento milioni di contadini ed è durato quasi un anno? Perché uno sciopero di poche centinaia di dipendenti Google o il processo di sindacalizzazione di un magazzino Amazon in Alabama ricevono visibilità e analisi in tutto il mondo?

Cercheremo in questo breve e semplice post di fornire alcuni pezzi necessari a comporre un puzzle complicato e in continua evoluzione anche dal punto di vista di chi, come me, è immerso nell'argomento. Copriremo un po' di punti sparsi necessari a comprendere questo periodo di mobilitazione dei tech worker e, magari, a parteciparvi.

Partiamo dalle basi: chi sono i tech worker? Il termine viene usato solitamente per identificare chiunque lavori direttamente per un'azienda tecnologica, come ad esempio programmatori, designer, sistemisti o magazzinieri nel caso di Amazon, oppure indirettamente, come molti rider che fanno consegne, i produttori di contenuti di Youtube o Twitch o i guidatori di Uber. In una definizione molto più ristretta, include solamente le professionalità tecniche e creative direttamente coinvolte nel processo di creazione della tecnologia. La prima definizione è più comune tra chi si occupa di questi temi mentre la seconda è usata implicitamente dai media e lentamente anche da molti lavoratori per identificarsi come categoria.

Perché quindi ricevono un trattamento speciale? Soprattutto perché lo ricevono categorie come ad esempio i programmatori che sono considerate tutto sommato benestanti se non fortemente privilegiate? Iniziamo col dire che la narrativa che riduce i tech worker ai soli programmatori e li rappresenta come ragazzini, rigorosamente maschi, geniali e strapagati, pieni di gadget tecnologici, con una passione per Star Wars e scarse skill sociali è una narrativa che di sicuro non racconta il mondo tech di oggi, né in Italia, né all'estero. Esistono indubbiamente figure di questo tipo, ma sono una frazione ridotta di un'industria che coinvolge professionalità diverse, con background e storie eterogenee, persone di tutte le età e i generi ma soprattutto lavoratori e lavoratrici con salari e condizioni di lavoro estremamente differenti tra loro, anche all'interno della stessa sotto-categoria e a parità di competenze. Il settore, in Italia come all'estero, a Palermo come a Mountain View, non è esente dai problemi comuni ad altri settori: sfruttamento, precarietà, salari bassi, caporalato (il famoso body rental di cui si parla ogni tanto in Italia) e via discorrendo.

Ciò ridimensiona la retorica che vuole i tech worker come una categoria benestante e ci dà l'idea che lo scontento sia forte anche e soprattutto per questioni materiali. A questi poi si aggiunge il malcontento di chi invece privilegiato lo è, come molti programmatori e programmatrici che per spirito di solidarietà o banalmente per mantenere il proprio benessere decidono di sindacalizzarsi da una posizione di forza. A questo si aggiungono le speranze tradite dall'industria tecnologica, che aveva promesso a queste figure di cambiare il mondo in meglio e per anni le ha fatte lavorare a cose inutili se non dannose, mentre il mondo fuori andava in pezzi.

Dicevamo: perché tanta attenzione? Possiamo identificare una serie di motivi:

  • esiste un'aspettativa che il settore tech diventi sempre più rilevante nelle economie occidentali e come successe per le rivoluzioni industriali, il livello di organizzazione dei lavoratori in queste fasi di infanzia potrà determinare grandi cambiamenti storici. Quando si iniziò ad organizzare i lavoratori nelle fabbriche nell'800 in Europa, gli operai erano una frazione esigua della popolazione, che era ancora principalmente impegnata in attività agricole. Tuttavia le esperienze di quegli anni, gli scioperi, i conflitti, le vittorie del movimento operaio furono una grande fonte di cambiamento sociale seppur coinvolgessero solo una demografia piccola ma decisiva. Anche allora esistevano persone più focalizzate su organizzare i contadini e mancando totalmente il potenziale storico che la rivoluzione industriale stava portando e così anche oggi, c'è chi vede più lontano e cerca di intuire come cambierà il mondo del lavoro negli anni a venire.

  • la presa di coscienza dei tech worker rompe numerose convinzioni che fino a qualche anno fa sembravano solide: che il lavoro tecnologico è principalmente immateriale, intangibile, etereo, troppo “puro” per avere problemi banali come i salari o le molestie in ufficio; che, come abbiamo detto prima, i tech worker sono tutti privilegiati; che i tech worker non si concepiscono come lavoratori: soprattutto in America per molti anni i lavoratori della tecnologia si sono sempre pensati come potenziali imprenditori, solo temporaneamente alle dipendenze di qualcuno perché necessario ad acquisire competenze o contatti; che, e questa forse è la cosa più importante, se i primi ad aver creduto alle promesse di progresso e benessere offerte dalla propaganda delle aziende della Silicon Valley negli ultimi 50 anni stanno finalmente smettendo di supportare questo sistema, c'è speranza che la disillusione si diffonda dall'interno verso l'esterno e faccia crollare tutto l'impianto, invece di lasciare queste critiche relegate a piccole nicchie di politica radicale come è stato fino a pochi anni fa.

  • l'ultimo motivo banalmente è che i prodotti tecnologici e digitali hanno sempre più spazio nelle nostre vite e le vicissitudini delle aziende che li producono interessano di più le persone. Ad esempio in ambito videoludico o in ambito di gadgettistica mobile, dove l'immedesimazione con l'azienda è molto forte (Apple vs Google/Android o Nintendo vs Microsoft vs Sony), il tema del conflitto interno alle aziende è un'occasione per criticare la fazione opposta, con l'effetto di far circolare le notizie su scioperi e proteste molto più che in altri contesti. Questo genera interesse, anche se non necessariamente per i motivi migliori. I media si adeguano.

Ora, come si organizzano i Tech Worker? Come conducono le loro azioni e come portano avanti le loro rivendicazioni? Abbiamo prima accennato un timido paragone con la classe operaia dell'800. Quindi i Tech Worker fanno scioperi selvaggi, vanno a picchiare gli industriali con le spranghe e danno fuoco alle sale server? Ovviamente no, o perlomeno non di solito. Lavoro cognitivo, lavoro di piattaforma, nuove forme di delocalizzazione e frammentazione del lavoro richiedono nuovi modi per trasformare in cambiamento il potenziale che ogni lavoratore ha quando si mette insieme ai suoi pari.

Ciò a volte prende forme simili a quelle tradizionali, come ad esempio i “walkout”, scioperi di poche ore volti non a danneggiare direttamente gli introiti dell'azienda, che spesso non risentono di poche ore o pochi giorni di interruzione del lavoro, ma mirati invece a danneggiare l'immagine dell'azienda, cercando di entrare nel ciclo mediatico e allontanare i clienti, giungendo così al danno economico di lungo periodo che servirà a convincere l'azienda a dare ai tech worker ciò che vogliono. Lo stesso principio è applicato anche a tutte quelle forme di interruzione della produzione, ad esempio in Amazon per il Black Friday o sulle piattaforme di Food Delivery negli orari di punta, che cercano di interrompere il servizio in periodi specifici in cui gli utenti siano massimamente sensibili al disagio prodotto e, di nuovo tramite le notizie sui media, collegare il disservizio al comportamento sfruttatorio dell'azienda.

A volte invece si utilizzano strategie che in passato erano meno comuni, come ad esempio il whistleblowing, ovvero, in questo contesto, il rilascio di informazioni aziendali di interesse pubblico da parte dei dipendenti. Dalle grandi rivelazioni sulla NSA Americana che spiava civili innocenti a più modeste denunce di mala gestione dei dati di qualche azienda o pubblica amministrazione di provincia, il whistleblowing permette al lavoratore di utilizzare il proprio coinvolgimento in attività illegali o immorali come arma contro il proprio datore di lavoro, raddrizzando ciò che percepisce come una stortura tramite l'intervento di attori esterni, come lo Stato o l'opinione pubblica. Spesso questi casi coincidono con o anticipano ondate di organizzazione e proteste: altri dipendenti, scoprendo o prendendo consapevolezza dei meccanismi in cui sono coinvolti, compiono il passo decisivo per uscire dalla passività.

Esistono poi tutta un'altra serie di strategie più sperimentali e meno consolidate con cui si sbizzarrisce l'estro creativo di programmatori e designer o l'inventiva di un rider. Pensiamo ad esempio al “sabotaggio legale” di Seth Vargo che per protestare contro l'agenzia che in USA gestisce i campi di concentramento degli immigrati al confine col Messico, al centro di tante polemiche delle amministrazioni Trump e Biden, ha cancellato un plugin open-source da GitHub, rompendo centinaia di sistemi aziendali automatizzati che dipendevano da tale plugin e portando i loro sistemisti a leggere un breve messaggio che spiegava i motivi della protesta. Oppure pensiamo alle Critical Mass dei rider, biciclettate di gruppo coincidenti con un'interruzione del servizio e volte a rallentare il traffico cittadino, dando così visibilità alle loro condizioni di lavoro tramite cartelli e megafoni.

Infine è importante notare come sia un movimento globale: ciò è inevitabile se l'industria in cui operi può spostarsi e ristrutturarsi in maniera più facile di altre e se la forza lavoro di una stessa azienda, o spesso di uno stesso team, è distribuita su più continenti. Si sono visti scioperi congiunti in Google, scioperi globali in Amazon e molte organizzazioni come Tech Workers Coalition o Game Workers Unite hanno sezioni in tante nazioni diverse pur essendo organizzazioni molto giovani. Non è nemmeno un fenomeno del cosiddetto Global North, avendo visto azioni di grande rilevanza da parte dei lavoratori tech cinesi con le campagne legate a 996.icu: “dalle 9 alle 9, 6 giorni alla settimana ti portano all'ICU (Intensive Care Unit, la terapia intensiva)”, supportati in occidente dai colleghi di Microsoft e GitHub che hanno sventato un intervento dei manager che volevano rimuovere dalla piattaforma GitHub il materiale delle proteste, diffuso tramite tale piattaforma poiché non sottoposta a censura in Cina. Ci sono inoltre sezioni in India di Tech Workers Coalition, movimenti di programmatori in Nigeria, Brasile e sicuramente tanti altri paesi le cui organizzazioni non hanno ancora raggiunto gli onori della cronaca. Le proteste e gli scioperi dei rider poi, sono oramai pressoché ovunque: dall'America Latina ad Hong Kong, da Los Angeles a Torino.

Spero con questo breve pezzo di aver dato alcune coordinate e aver circoscritto quello che ormai viene chiamato da alcuni anni “Tech Worker Movement”. Ci sarebbe ancora molto da dire sugli obiettivi e le pratiche di questo movimento ma per ora è meglio fermarsi qui. Per chi volesse invece approfondire il tema, concludo con alcuni puntatori interessanti in ordine sparso.

The Making of the Tech Worker Movement Quaderni di lavoro: Nuovi orizzonti e nuove forme di conflitto – Tech Worker, lavoro tecnologico e identità Tech Workers Coalition Italia Tech Workers Coalition Global Game Workers Unite Collective Actions In Tech Rights against the Machine Schiavi del Clic Gli Obsoleti

Ci eravamo detti che non saremmo tornati alla normalità, perché la normalità era il problema.

La mia normalità era molto confortevole: lavorare qualche ora al giorno in un ambiente rilassato e sano, prendermi un lauto stipendio a fine mese, non produrre assolutamente niente di utile per nessuno e utilizzare questi soldi e questo tempo extra per finanziare le mie attività e organizzazioni politiche, culturali e sindacali, oltre a supportare quelle altrui.

Bello, ma dopo 7 anni di startup, anche basta: non penso di aver mai prodotto nulla che abbia effettivamente risolto un problema per qualcuno. E non intendo che quello che producevo serviva solo a generare profitto e nient'altro, intendo proprio che finiva buttato nel cesso perché il progetto falliva, l'azienda falliva, il settore intero falliva, i dati si scopriva che facevano schifo.

Il modello startup probabilmente reggerà ancora un po': un circo colorato di promesse non mantenute e fondi sifonati per costruire giocattoli inutili quando va bene, mastodonti pericolosi per la collettività e per l'economia quando va male. Ho 32 anni e penso di voler combinare qualcosa di meglio col mio tempo e lasciare questi passatempi ad altri.

Per questo motivo sono dimissionario e ho in piano, da Gennaio, di fondare una cooperativa in Italia. O meglio, un acceleratore di cooperative. Perché il modello startup ha prodotto tante metodologie utili e ha esplorato un modo di costruire organizzazioni e reti di organizzazioni in maniera rapida e incisiva. Il suo problema è sempre stato il capitale alle spalle e i modelli di finanziamento che privilegiavano idee stupide, modelli di business malsani e mercati improbabili.

Da qui l'idea (non mia) di tradurre alcune di queste pratiche e metterle al servizio prima del settore cooperativo e poi della alt-economy emergente in questi anni. I modelli cooperativi si sono dimostrati più resistenti alle crisi economiche e con l'apocalisse in cui stiamo vivendo, la normalità non può più includere gli inefficienti e vetusti modelli competitivi. Out-cooperate the competition.

Il tempo di costruire organizzazioni solide per prepararci alle enormi sfide economiche e sociali davanti a noi era ieri, però io arrivo tardi e quindi lo posso fare solo oggi.

Ho deciso quindi di fare la scelta radicale di abbandonare la mia normalità ben pagata, il mio interesse personale ed economico e fondamentalmente la mia carriera da programmatore per iniziare a fare qualcosa per la collettività. Siccome ho il pancino troppo delicato per fare la lotta armata, l'opzione che mi è rimasta è andare a fare il CTO con Damiano Avellino e Micol Salomone e fondare una cooperativa che ancora non ha un nome.

300 anni di ideologia liberale ci hanno convinto che le persone siano guidate dall'interesse egoistico quando agiscono in società: questa scelta per me rappresenta il liberarmi, anche nel mondo del lavoro, da questo imperativo artificiale. Non è nel mio interesse farlo, non è la mia passione e sperabilmente contribuirà a costruire un mondo in cui io e quelli come me saranno meno privilegiati di quanto sono ora. Questa scelta deriva esclusivamente dal senso di responsabilità e dalla vergogna del giudizio di chi verrà dopo di me, che si guarderà indietro e si chiederà cosa faceva Simone mentre il mondo prendeva fuoco. La mia risposta sarà questa. Vi auguro di trovare la vostra al più presto.

Ringrazio i miei cattivi maestri: Alessandro Tartaglia, Rodrigo Nunes, Andrea Dotta, Yonatan Miller, David Graeber, Walter Vannini, Polly Yim, Giulio Quarta.

edit: siccome l'articolo è evidentemente un po' criptico e molti di voi sembrano saltare alla conclusione che questo articolo inviti a non discutere di RAL prima di arrivare al fondo dell'articolo dove invito a fare esattamente il contrario, aggiungo un disclaimer anche qui: l'analisi condotta nell'articolo non è volta a limitare lo scambio di informazioni tra tech worker in merito ai compensi ma al contrario, vuole sottolineare come questa discussione sia condotta in maniera sconclusionata, confusionaria e caotica, cosa che ne limita l'utilità a navigare il mondo del lavoro, far emergere forme di sfruttamento o a costruire solidarietà coi vostri pari

Chi non partecipa alle comunità online per programmatori e sistemisti è probabilmente ignaro del peculiare brusio creato da dozzine di informatici che elaborano con grande enfasi teorie sulla loro RAL, su quella dei loro amici e su quella dei presenti. RAL, per chi non lo sapesse, significa Retribuzione Annua Lorda ed è la misura con cui in diverse professioni i dipendenti possono confrontare gli stipendi offerti da diverse aziende in maniera veloce.

Per gli informatici, ma non solo per loro, la RAL è assurta ad unità di misura sociale, rimuovendo la necessità di utilizzare il proprio salario per comprare oggetti che mostrino status. Lo status, per gli informatici, è esclusivamente intellettuale. La logica tecno-machista vuole che il tuo valore come essere umano dipenda dalla tua capacità di scrivere codice, creare tecnologia, sviluppare sistemi. Più sei bravo, più sei degno. La competenza tecnica come misura morale e sociale.

Alcuni possono vedere una conferma di questa capacità nel successo del proprio software: dai grandi nomi dell'informatica fino agli sviluppatori di piccole librerie di successo. Però questi sono una frazione infinitesima del totale e tutti gli altri sono lasciati a misurarsi l'uno con l'altro utilizzando metriche proxy che approssimano la propria competenza tecnica, notoriamente complicata da misurare in maniera oggettiva e deterministica.

A ciò si aggiunge il fatto che la nuova organizzazione del lavoro, pian piano, punta ad un'orizzontalizzazione dei processi aziendali, celebrando l'agilità delle strutture piatte in contrapposizione alla rigidità e lentezza di quelle piramidali. In Italia questa transizione è matura nelle idee ma abbastanza assente nelle realtà lavorative, irrimediabilmente managerializzate e verticali. Un Dio-Padrone in cima, vari livelli di manager in mezzo e in fondo chi lavora. Questo stato di cose impedisce di misurarsi l'un l'altro in base alla posizione nelle gerarchie aziendali, poiché a salire troppo nella piramide si diventa qualcos'altro, soggetti a regoli sociali diverse, finendo in un universo parallelo fatto di meeting coi manager del cliente, presentazioni con gli € invece che coi diagrammi di flusso, cene a base di pesce e cocaina. Un po' come gli alieni di Toy Story sollevati dal braccio meccanico per andare in un posto “migliore”.

Ecco quindi che, perlomeno nel contesto italiano, questo ruolo viene assunto dalla RAL. Facendo l'equazione (ovviamente sbagliata) che il proprio salario è direttamente proporzionale alla propria competenza tecnica, discutere di RAL diventa uno strumento fondamentale di interazione sociale. La parte più interessante è che queste interazioni, come saprà chi le ha osservate, sfuggono ai cliché tradizionali dei discorsi materialisti di chi ostenta il proprio stipendio.

Sono in pochi infatti a mostrare una RAL alta con tono snob e con l'intenzione di umiliare il prossimo. Ci sono ma nella maggior parte degli ambienti vengono presto castigati e ostracizzati. Vengono tollerati invece quelli che utilizzano storie di stipendi alti per promettere e promettersi la salvazione. “Tizio è arrivato a prendere 50k in Italia: è possibile, basta impegnarsi e volerlo”.

Discutere di RAL diventa più un esercizio divinatorio, una sorta di astrologia in cui osservando alcuni sintomi di cambiamenti sistemici e rapportandoli alla propria condizione personale, si può determinare se si è degni o meno, o se si ha una speranza di elevarsi a breve.

Questa attività è divinatoria perché ignora tutti i fondamentali principi della statistica e dell'economia ma procede per una confusionaria elencazione di storie lasciando al singolo un'interpretazione soggettiva: “io prendo 27k a Milano ma ne prendevo 32 a Roma”, “conosco uno che prende 30k da neolaureato”, “una volta a mio cugino hanno offerto 35k come mid java developer”, “ahhhh all'estero pagano di più. Ho saputo di uno che è andato in Estonia e ha raddoppiato lo stipendio. E lì il costo della vita non è mica come a San Francisco, dove con 100k al massimo vivi in una stanza condivisa”.

L'obiettivo ultimo non è un'analisi economica del settore: ne esistono di professionali fatte da associazioni di categoria e non vengono mai minimamente tirate in ballo. I freddi numeri non raccontano storie. Gli stipendi medi o mediani non accendono la speranza di avere un domani uno stipendio alto, anche se per ovvi motivi la quasi totalità dei partecipanti avrà stipendi più vicini al centro della campana. Questo modo di creare senso non è in ultimo molto dissimile dal modo in cui gli informatici sviluppano le proprie pratiche e i loro giudizi sulle questioni di produzione del software: in assenza di un campo scientifico capace di dare risposte sui problemi dello sviluppo software, il settore procede accumulando storie di successo e imitandole, facendone sintesi che si sedimentano e acquisendo col tempo sempre più credibilità fino a diventare mitologia, a volte anche in aperta opposizione ad una sopraggiunta risposta scientifica su un determinato tema.

Come per l'astrologia poi, questo complesso sistema divinatorio funziona non perché è capace di dirci qualcosa di affidabile sul presente o sul futuro ma perché diventa una scusa per mettere sul tavolo altri problemi senza essere troppo diretti e violare barriere sociali. La RAL serve come copertura per arrivare a parlare di stress, di straordinari non pagati, di sfruttamento, di politica nazionale, di una classe manageriale antiquata e in ultimo anche di quei valori che raramente trovano spazio nelle comunità tecniche: “certo, prendo un po' di meno ma il lavoro che faccio aiuta tante persone nel quotidiano quindi è ok” oppure “mi pagano meno di quanto potrei prendere altrove ma sono in una cooperativa che è allineata ai miei valori politici”.

Qual è quindi l'obiettivo? A mio parere la risposta è da ricercare nella crisi di significato che pervade il mondo della tecnologia digitale e in particolare quello italiano. Siamo stati bombardati per anni dall'ideologia californiana per cui noi informatici abbiamo il potere di cambiare il mondo, disruptare (sic.) interi settori, rivoluzionare l'esistente. In California questa promessa è stata chiaramente e prevedibilmente disillusa, trasformando l'ecosistema startup in una fabbrica di monopoli distopici(Google, Facebook, Amazon), di attori economici tossici (AirBnB, Uber, Lyft, i vari food delivery) e di attività criminali (Theranos, WeWork). In Italia non abbiamo nemmeno avuto il privilegio di fare qualcosa di malvagio: il grosso dell'IT italiano è condannato alla noia.

Da un lato quelli che fanno un lavoro significativo e importante creando infrastrutture critiche e software affidabile usato effettivamente dalle persone; questo è un lavoro di disciplina, metodo, costanza, pazienza e raramente può essere raccontato con gran fanfara.

Dall'altro lato le orde di bullshit jobs tecnici: lavori e attività che esistono esclusivamente per estrarre profitto da qualcuno, per accontentare un manager di qualche banca o assicurazione, per risolvere problemi creati da altri bullshit jobs.

Niente fuochi d'artificio per l'IT italiano. Chi prova a rubare la narrativa californiana e ammantarsi della stessa importanza, chi riutilizza le stesse parole, le stesse idee di “rivoluzione” per descrivere un lavoro che spesso consiste nello sviluppare qualche app per il telefono che galleggia a malapena nel ranking del PlayStore di Android, nel privato delle comunità viene regolarmente accolto con derisione per la propria mancanza di senso del ridicolo. Lo stesso trattamento viene riservato ai giornalisti conniventi considerati ingenui o ignoranti.

In questa continua tensione tra l'imperativo di rivoluzionare tutto e la realtà del non star facendo niente di radicale, si apre un ampio varco per un sistema di valore individuale alternativo e quindi la RAL, come proxy della competenza tecnica, fiorisce. Se a Londra o San Francisco è normale misurarsi l'un l'altro in base alla figaggine e alla trendyness della startup per cui lavori, in Italia questa danza sociale viene condotto creando una mappa di data point sugli stipendi altrui e posizionandovisi sopra.

Le discussioni di questo tipo vanno quindi prese, a mio parere, come un sintomo di un problema più profondo di perdita di significato e valore del lavoro. Un'istanza specifica di una situazione comune nell'era del tardo-capitalismo e in netto peggioramento negli ultimi anni, in cui le grandi narrative sul lavoro colano a picco insieme al livello di benessere e stabilità economica.

La conclusione che ne possiamo trarre quindi è che dovremmo insistere sullo sganciare il lavoro e il salario dal valore della persona; una logica malata che oggi sembra sulla via del tramonto ma che ancora resiste e si riproduce in alcune bolle sociali come la nostra. Poi dovremmo ritornare a parlare della conquista di un impatto radicale sul mondo senza cadere nel canto delle sirene che arriva da oltreoceano, ormai fuori tempo massimo ma che con il solito ritardo che contraddistingue l'Italia, trova ancora terreno fertile nella stessa classe manageriale politica e antiquata che cerca di svecchiarsi mettendosi uno smartwatch. Infine ripristinare una discussione sui salari che sia guidata da strumenti più razionali e con l'obiettivo di migliorare le condizioni di lavoro per tutte e tutti, invece di un logorante brusio di individui vuoti di consapevolezza e di intenzioni.

Parlare di RAL su internet è uno sport appassionante ma in questi termini e con questi modi caotici non aiuta a navigare un settore sempre in rapido mutamento e sempre più stratificato. Parlare di RAL coi colleghi, iniziativa estremamente rara nell'IT, può invece portare a cambiamenti molto più concreti nell'immediato, porre le basi per relazioni più solide e solidali coi vostri pari. Nessuno si salva da solo e sapere le cose non cambia le cose. Il mercato del lavoro non è una divinità lontana da comprendere ma uno strumento fatto da umani e da utilizzare e influenzare per migliorare le nostre condizioni di lavoro. Pensateci ogni volta che parlate di RAL.

La parola “collasso” compare sempre più spesso nel dibattito politico, appropinquandosi a ritmo sostenuto verso l'entrata nel mainstream. In molti contesti è un concetto ormai centrale e tante voci, da tante posizioni diverse, partecipano a un discorso che intreccia politica, filosofia, diverse discipline scientifiche, design, narrativa e tecnologia.

Questo articolo vuole essere un'introduzione minimale per orientarsi e iniziare a comprendere un tema che inevitabilmente diventerà sempre più rilevante negli anni a venire. Un elenco di posizioni, fazioni, opinioni, tendenze, di coordinate del dibattito, di argomenti su cui si imperniano le varie contrapposizioni. Chiaramente non vi è pretesa né di esaustività né di profondità storica: le radici del dibattito in corso possono tornare indietro anche di secoli e ogni giorno emergono nuove posizioni, nuovi gruppi, nuove declinazioni, nuove identità e definizioni, provenienti da ogni punto dello spettro politico, dall'accademia, da comunità internet occulte, dall'ultimo autore che decide di affrontare la questione e dire la sua. Mappare questo fermento enumerando le singole organizzazioni, personalità, partiti e comunità sarebbe un esercizio tanto impegnativo quanto sterile.

Credo sia molto più interessante invece fornire semplici strumenti interpretativi per navigare questo dibattito multiforme e frammentato. Per farlo ci avvarremo di una serie di categorizzazioni, alcune formulate dai promotori stessi delle posizioni illustrate, altre elaborate da me, per raggruppare elementi e attori che condividono tratti comuni tra loro, influenze e relazioni. Spero il risultato non abbia troppo il gusto delle tassonomie degli antropologi ottocenteschi.

Prima di cominciare però, è forse utile riassumere cosa si intende con il termine “collasso”. Una definizione troppo rigorosa è difficile, anche perché vorrebbe dire prendere posizioni nel dibattito, in cui esistono voci piuttosto divergenti su cosa questo collasso sia e su come si dipanerà. Tuttavia, sperando di non essere troppo di parte, nel nostro contesto si può definire il Collasso come il processo storico di transizione della/e società umana, complessa, globalizzata, altamente connessa e materialmente abbondante a uno stato di maggiore precarietà, minore abbondanza e stabilità, fino al raggiungimento di un potenziale rischio esistenziale. Spesso il Collasso è attribuito a confluenze e compenetrazioni d'instabilità ecologiche, sociali, economiche e politiche già in corso o presenti nel futuro prossimo.

Gli ottimisti

Negazionisti totali: non esistono trend discendenti, minacce climatiche o ecologiche. Il presente non è oggetto di minacce di portata storica in grado di compromettere il benessere materiale e sociale.

Negazionisti parziali: esistono alcuni trend discendenti, in particolare problematiche d'ineguaglianza sociale, instabilità economica o problemi d'inquinamento. Tuttavia non sono sufficienti a modificare in maniera sostanziale la realtà in cui viviamo. Il sistema economico-politico, l'umanità o altre forze correggeranno inevitabilmente questi elementi. I sintomi che osserviamo sono solamente temporanei e destinati a scomparire.

Ottimisti tecnologici: il collasso è possibile ma è un problema tecnico da risolvere. In particolare nuove tecnologie in ambito ecologico, energetico o digitale saranno in grado di invertire i fenomeni che stiamo osservando.

Ottimisti economici: il collasso è possibile ma si può prevenire codificando i giusti input economici per compensare le esternalità ecologiche, le ineguaglianze e le divisioni sociali. Non è necessaria una ristrutturazione sociale ma una politica economica migliore.

Riformisti: il collasso verrà impedito da profonde ristrutturazioni del sistema produttivo, del welfare e da enormi investimenti per il risanamento ecologico. Vi sarà un punto d'incontro politico dovuto ai danni causati dal collasso in avvicinamento e la resistenza degli stati-nazione ad agire e proteggere lo status quo. Quando avverrà, si libereranno forze sufficienti a interventi radicali.

Millenaristi: il collasso avverrà, ma è una cosa positiva e necessaria per liberare l'umanità dal degrado presente. Le difficoltà che creerà aiuteranno a dividere i giusti dagli empi. Esistono posizioni millenariste in varie comunità: dai fondamentalisti religiosi che vedono il collasso imminente come una sorta di giorno del giudizio biblico ai suprematisti etnici che attendono il collasso sociale per rimuovere gli ostacoli che oggi impediscono loro di sterminare etnie diverse dalla loro.

Accelerazionisti di destra/Dark Enlightment: il collasso dell'umanità avverrà, ma sarà un passo evolutivo necessario per liberare il Capitalismo dalla necessità di supportare la comunità umana. Radicata principalmente nella visione accelerazionista di filosofi come Nick Land e del blogger Curtis Guy Yarvin, varie declinazioni di questo pensiero promuovono, principalmente nell'estrema destra Americana, un approccio al collasso come necessario e da facilitare attivamente.

I pessimisti

Arrendisti: il collasso è inevitabile perché si sarebbe dovuto agire prima. Oramai qualunque soluzione tecnica e politica è superflua.

Arrendisti edonisti: il collasso è inevitabile e dobbiamo spendere questi ultimi anni a goderci ciò che abbiamo invece di attivarci per un cambiamento che comunque non porterebbe ad alcun risultato.

Post-collassisti: il collasso è inevitabile e perciò bisogna agire oggi per costruire strumenti concettuali, tecnici e sociali che ci serviranno durante e dopo il collasso, per minimizzarne gli effetti sul lungo termine.

Ritardisti: il collasso è inevitabile e l'obiettivo primario è rallentarlo per estendere quanto più possibile le condizioni correnti, facilitare l'attraversamento del collasso e minimizzare i costi in termini di vite umane.

Tipi di collasso

Finora abbiamo parlato di collasso in maniera indistinta. Tuttavia sussistono visioni radicalmente differenti, spesso opposte e inconciliabili, su come il collasso si potrebbe sviluppare. Scendere nel dettaglio tecnico, logistico, ecologico e sociale del cambiamento della realtà quotidiana sotto il collasso è necessario per comprendere le idee e i progetti che da queste visioni si sviluppano.

Collasso rapido/prepper: il collasso avverrà rapidamente a livello globale in una finestra temporale ristretta. Tanti piccoli fallimenti infrastrutturali locali, instabilità politiche o eventi climatici estremi impediranno una transazione graduale. Perciò chi vuole sopravvivere deve prepararsi a un periodo di sopravvivenza in condizioni profondamente ostili al mantenimento o formazione di una qualsiasi forma di società organizzata.

Collasso lineare: il collasso avverrà lentamente a livello globale. Le infrastrutture e le catene produttive globali saranno progressivamente meno manutenibili. Molti Stati e comunità locali vedranno peggiorare le proprie condizioni materiali nel corso degli anni. Sebbene questo porterà a una riduzione della popolazione e del benessere, la transizione graduale permetterà un adattamento in ogni aspetto della vita in tutte quelle località non interessate dagli effetti peggiori del collasso.

Collasso accelerato/non lineare: a causa di interdipendenze ecologiche (ad es. rilascio di metano dal permafrost) e infrastrutturali (ad es. la fragilità della catena produttiva dell'elettronica), ci sarà un punto di rottura in cui si innescheranno a catena una serie di meccanismi che accelereranno il collasso prima che si raggiunga un punto di equilibrio. Questo ritmo di cambiamento potrebbe essere troppo rapido perché gli esseri umani ci si possano adattare efficacemente.

Ideologie

Come diverse visioni materiali del collasso producono progettualità diverse, anche le ideologie di riferimento si intrecciano con il posizionamento nel dibattito. La comprensione di ideologie nuove, di ideologie esistenti o dei loro adattamenti è una lente fondamentale per comprendere il dibattito sul futuro. Interessante è notare quanto molte ideologie, soprattutto conservatrici e liberali, siano completamente incapaci di incorporare una componente di possibile regresso e siano quindi assenti dal discorso o presenti con posizioni negazioniste.

Inoltre non includo nella lista tutte le ideologie politiche ecologiste che non concettualizzano o esprimono posizioni esplicite sul collasso come inteso in questo articolo, pur avendo una qualche idea di collasso o degradazione ecologica come parte integrante del loro pensiero.

Eco-fascismo: il collasso è colpa della sovrappopolazione, dell'eccesso di benessere o delle scelte di particolari nazioni o fasce demografiche. Misure restrittive, soppressione di determinate libertà per una parte della popolazione o la loro eliminazione fisica sono necessarie per evitare un collasso globale.

Decrescismo: un modello economico e sociale che richiede una continua crescita, basata sull'estrazione predatoria di risorse è insostenibile sul lungo periodo. Sono necessari nuovi modelli economici che non siano vincolati dall'imperativo della crescita. Un sistema produttivo più locale, con inter-dipendenze ridotte, è necessario per affrontare la fragilità di quello attuale, anticipando le necessità che verranno imposte dal Collasso.

Eco-socialismo: lo Stato o un ente equivalente, come una confederazione di comunità, deve farsi promotore dell'equilibrio ecologico e ristrutturare la società e i sistemi produttivi per prevenire o per sopravvivere al collasso. Data la gravità della minaccia, il tema ecologico deve essere integrato pienamente nella pianificazione politica per mantenere il benessere materiale conquistato sinora.

Communalisti/Eco-anarchismo: la via per sopravvivere al collasso è costruire reti e comunità auto-sufficienti in grado di sopravvivere e adattarsi ai cambiamenti sociali e climatici, eliminando progressivamente le dipendenze dalle supply chain globali e regionali.

Estetiche

Quando si parla di immaginare il futuro, le estetiche di riferimento sono importanti tanto quanto la teoria, se non di più. Data l'impossibilità di prevedere con precisione le complesse evoluzioni che avverranno nei prossimi decenni e come queste si ripercuoteranno in ogni singolo aspetto della quotidianità, ragionare sui mondi possibili da un punto di vista artistico, narrativo, emotivo, permette di comprendersi e di mobilitare persone all'azione molto più facilmente di un arido report scientifico o di un trattato di teoria eccessivamente astratto.

Il tema è stato esplorato a lungo da prospettive diverse, spesso anche prima che l'evenienza di un collasso diventasse concreta e vicina nel tempo quanto lo è adesso. Intenzionalmente o meno, correnti letterarie, cinematografiche e artistiche condizionano il discorso e determinano ciò che ci immaginiamo quando chiudiamo gli occhi e pensiamo a come sarà la nostra vita fra 50 anni.

Post-apocalisse: il collasso sarà rapido e violento, dovuto a cataclismi di scala globale. Ciò che seguirà sarà un mondo materialmente e socialmente povero, con gruppi di varia natura in continuo conflitto tra loro per le poche risorse disponibili. In alternativa, il collasso demografico sarà così profondo da ridurre la densità di presenza umana fino al punto in cui gruppi molto esigui riusciranno a vivere di sussistenza, come nomadi o come stanziali. Esempi: Mad Max, Fallout, The Survivalist.

Cyberpunk/Sci-fi: il collasso sociale ed ecologico non si accompagna a una riduzione del benessere materiale o della competenza tecnologica, ma a una crescita smisurata del divario tra classi sociali. Spesso ad un collasso dell'ordine costituito non segue un conflitto caotico e violento ma una sostituzione da parte delle corporation che rimpiazzano lo Stato e implementano società distopiche. Esempi: Autonomous, The Peripheral, Elysium.

Solarpunk: il collasso delle vecchie strutture sociali e produttive è un meccanismo positivo, capace di innescare una rivoluzione profonda delle società umane. Sotto la minaccia dell'estinzione, avviene una riconfigurazione sociale che incorpora pienamente l'ecologia, la cooperazione e lo sviluppo radicalmente sostenibile. Il risultato è una società capace di riprodursi senza distruggere e senza opprimere. Esempi: The Dispossesed, Ecotopia, Sunvault.

Corporate Marketing: il collasso è caratterizzato come una conseguenza di scelte consumistiche sbagliate, imperniate sull'uso di materie e prodotti non “puliti” o non sostenibili. Il collasso non è mai rappresentato direttamente, ma suggerito, implicito, così da spingere il cliente all'acquisto. Questo non impedisce di dargli dei tratti specifici, seppur deboli e funzionali esclusivamente alla generazione di profitto. Viene utilizzato principalmente all'interno di pubblicità, brochure, post sui social e comunicazione aziendale in genere.

Cottage-core: la feticizzazione della vita bucolica e isolata, tema ricorrente nell'arte da millenni, viene riproposta dal cottage-core come una fuga dalla modernità in declino. Il collasso è visto come qualcosa di lontano, che non può raggiungere la bolla idilliaca. Una forte dicotomia tra umanità e natura pongono quest'ultima e il contatto con essa come via di fuga dai problemi presenti e futuri.


Se avete suggerimenti per ampliare la lista, correzioni o osservazioni su alcune delle posizioni presentate che, mi rendo conto, rischiano di non rendere giustizia alla complessità del pensiero e delle comunità che vi stanno dietro, potete contattarmi all'indirizzo e-mail: simone.robutti@protonmail.com. Sono apertissimo a far evolvere questo articolo in maniera collaborativa, con l'intenzione, una volta raggiunta la maturità, di tradurlo anche in altre lingue.

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