Quaderni di lavoro: Contro l'hackerismo, pt. 1

Questo articolo è parte di una serie che sperabilmente porterà alla creazione di un articolo aperto sul tema della disseminazione tecnologica e la narrativa su come è compresa e svolta in occidente. Gli articoli saranno leggibili indipendentemente uno dall'altro o come un corpo unico.


Letture propedeutiche:

The Californian Ideology


Traduzione dell'articolo in lingua originale


Il termine “hacker” è stato utilizzato da così tanti individui e movimenti che oramai è totalmente priva di significato. Sebbene all'origine il termine indicasse un ristretto gruppo di appassionati di tecnologia, lentamente prese ad evolversi per indicaure un'intera sottocultura, successivamente frammentatasi in una costellazione di movimenti tecno-politici. Negli anni, il termine venne pienamente assorbito dalla startup-culture. Diventò un termine utilizzato sia dai lavoratori tecnici che dai manager per identificarsi in un'idea di successo come definito dall'Ideologia Californiana. Lo sforzo imprenditoriale venne quindi rappresentato come un attacco allo status quo, al buon senso e ai vincoli che limitano i concorrenti (pensare out of the box). L'hackerismo diventò quindi un elemento di auto-promozione, personale e aziendale.

Ad oggi il termine viene utilizzato nei media mainstream soprattutto per identificare gli hacker che lavorano nell'ambito della sicurezza o utilizzato in modo improprio per identificare i cracker professionisti o non professionisti. Il termine è stato riappropriato da svariati attori del panorama tecnologico, sociale e politico al punto che un tentativo di comprensione della parola pone di fronte a contraddizioni apparentemente inconciliabili. Che cosa ha a che fare un “growth hacker” (fondamentalmente un businnes analyst con la polo invece che con la cravatta) con un hacktivista che cerca di distruggere il capitalismo neoliberale attaccando le banche o sviluppando un'applicazione di messaggistica? Sono imparentati con un esperto di sicurezza cinese che cerca di distruggere le infrastrutture di qualche azienda americana?

“NO!” urlerebbe l'hacktivista: “Io sono l'unico degno di usare questa parola, perché essere un hacker significa essere contro il sistema”. Lo sviluppatore startupparo invece risponderebbe: “Zio, anche io sto combattendo il sistema. La mia company sta cercando di rivoluzionare il mercato dei filtri per le docce. Questo settore è una mafietta di vecchi capitalisti che non ha mai provato a migliorare il prodotto. Li butteremo fuori e creeremo un mondo di docce migliori.” L'hacker cinese non parteciperebbe proprio alla discussione perché non gli interessa nulla di queste ideologie e si è semplicemente ritrovato l'etichetta appiccicata addosso dagli occidentali.

Ci sono tante categorie a cui piace farsi chiamare hacker ma l'obiettivo di questo articolo è parlare di uno specifico sottoinsieme che ora proveremo a definire. Alcuni li chiamerebbero “hacktivist”, ma è un termine ancora troppo largo. Ci interessano specificamente quegli hacker che si percepiscono come politicamente impegnati, consapevoli e orientati su posizioni progressiste, intese nel senso più lasco e superficiale del termine: espandere i diritti naturali o artificiali a quante più persone possibile.

Tra questi vogliamo considerare solo quelli che operano attivamente nell'analizzare sistemi tecno/sociali o artefatti tecnologici, oppure per svilupparne di nuovi. Vogliamo lasciare fuori da questa discussione quelli che non sono politicizzati e quelli che mantengono posizioni reazionarie, pro-capitaliste o apertamente razziste. Lasciamo fuori inoltre tutti quei cracker (individui o collettivi) che negli ultimi decenni hanno attaccato sistemi industriali e governativi per estrarre e pubblicare informazioni sensibili che, secondo loro, dovevano essere condivisi con il pubblico. Menzioniamo come esempio Phineas Fisher.

La prospettiva hackerista

Considero l'identità hacker una potente fonte di motivazione. Catalizza la produzione di tecnologia all'esterno dei processi convenzionali di sviluppo tecnologico. Considero inoltre questa identità come indissolubilmente legata ad un pesante bagaglio ideologico e metodologico che, in ultima analisi, limita l'impatto della “tecnologia hackerata” alla liberazione delle persone e al miglioramento delle loro condizioni materiali, psicologiche e spirituali, un miglioramento che è spesso l'obiettivo dichiarato di molti hacker.

Definiamo la prospettiva hackerista:

La prospettiva hackerista è un tentativo di alterare la tecnologia per ragioni politiche tramite una ridefinizione dell'uso di artefatti tecnologici senza curarsi di modificare il processo che ha prodotto tale tecnologia.

Segue come corollario: I processi e i sistemi che producono tecnologia vengono messi in discussione, attaccati, conquistati, ma mai ridefiniti.

La prospettiva hackerista è per definizione anti-politica, poiché ridefinire processi e sistemi richiede un'attività politica per convergere verso un compromesso. Uno specifico modo di usare una tecnologia è codificato dalla struttura sociale che la utilizza. Tale uso codificato non può essere inserito nell'artefatto stesso senza modificare il contesto sociale.

La prospettiva hackerista non è in grado di contemplare questo tipo di complessità: per continuare a dare valore e significato agli sforzi della collettività hackerista, finisce per riutilizzare, ribaltandoli, i miti dell'Ideologia Californiana. Dove la Silicon Valley infonde nella propria tecnologia un Potere salvifico, l'hacker vede una Divinità del Controllo. Nuove tecno-divinità, più pure, più morali vengono create dall'hacker per liberare gli umani dall'oppressione degli antichi tecno-demoni, corrotti e malvagi, creati dalle corporation.

Restringere le proprie pratiche al piano tecnico e cancellarne le implicazioni sociali e ideologiche è l'unica opzione disponibile dopo aver abbracciato una visione del mondo che vede la battaglia per la libertà come un conflitto di competenze tecniche. Uno scontro macista di intelletti individuali o collettivi invece che un conflitto fluido di corpi e comunità umane contro il capitale.

La prospettiva hackerista nel mondo reale

Il mondo intorno a noi come viene influenzato dalla prospettiva hackerista? Come influenza la controcultura Tech? Come influenza gli artefatti che vengono prodotti? È una categoria vuota o una categoria utile a rifuggire gabbie ideologiche?

Essendo un'identità liquida e mancando di una struttura chiara ed organizzata, la comunità hacker è difficile da ridurre ad uno specifico gruppo di persone, obiettivi e progetti perciò è necessario utilizzare categorie più precise.

Partiamo da un fatto: un gran numero di attivisti in giro per il mondo vogliono resistere all'impatto negativo della tecnologia sulle nostre vite e vogliono limitare lo strapotere del mondo corporate sulle società, gli individui, le masse organiche e gli spazi in tutto il mondo. Buona parte di questi si identifica come hacker o hacktivist. A questa moltitudine di prospettive, prese come un'entità unica, si possono attribuire sia i successi sia i fallimenti nei diversi obiettivi in cui la moltitudine si riconosce.

Il bilancio di questa impresa collettiva hackerista è profondamente negativo. Oggi la multitudine hacker è incapace di produrre alternative pervasive, produrre soluzioni accessibili e scalabili e in ultimo, contrattaccare all'interminabile invasione degli spazi pubblici e privati da parte di Big Tech. Come molta della sinistra post-sessantottina, gli hacker sono contenti di resistere all'assalto, rallentando leggermente le forze capitaliste che continuano ad operare ad un livello e con un'intensità irraggiungibile per la “Resistenza”. Il risultato è la creazione di piccoli spazi di sicurezza che diventano sempre più difficili da difendere e a costi di manutenzione sempre più alti.

Prendiamo ad esempio la comunicazione sicura tramite internet. La moltitudine ha prodotto negli ultimi anni numerose soluzioni usabili per permettere di scambiare messaggi e file in maniera relativamente sicura a tutte le persone con dimestichezza tecnica senza bisogno di investire troppo tempo nella configurazione dei propri sistemi. Sebbene questo risultato sia estremamente efficace nel proteggere i membri della moltitudine e altre figure come giornalisti, whistleblowers e dissidenti politici, sembra incapace di generalizzarsi e raggiungere le massi. Probabilmente molti hacker vi direbbero che questo non è mai nemmeno stato un vero obiettivo. I pattern di localismo prefigurativo collassato in sistemi di valore autoreferenziali è identico a quelli che si possono osservare in tante nicchie della Sinistra.

L'incapacità di generalizzare e scalare le proprie soluzioni (con qualche eccezione tra cui alcuni Free Software e design hardware come Arduino) sembra essere il pattern comune in tutte le “battaglie tecnologiche” combattute dalla moltitudine. Un cambiamento che è ristretto ad una élite di persone tecnicamente competenti è un cambiamento che non è né duraturo né profondo. Riprodurre all'infinito la propria indipendenza personale da Big Tech non è una battaglia per la liberazione dell'umanità. Allo stesso modo, l'elaborazione teorica o l'analisi in ambito accademico che fallisce nel produrre risultati nel mondo reale è nulla se non un atto masturbatorio eseguito da una classe media di accademici, artisti e operatori culturali. È forte e un po' inquietante la somiglianza tra questi due mondi, la moltitudine hackerista e la moltitudine politico-culturale della sinistra occidentale, nonostante abbiano radici molto diverse.

La prospettiva hackerista è sufficiente per spiegare questa limitazione: operando esclusivamente a livello tecnico puoi ottenere solo determinati tipi di succcessi e gli altri vi sono preclusi. In aggiunta, esiste una sequela di soluzioni tecniche molto in voga a cui gli hacker attribuiscono potere liberatorio: il free software, le soluzioni decentralizzate, le soluzioni federate, la cifratura delle comunicazioni, la computazione lato client finalizzata alla data ownership e così via.

Di recente le soluzioni federate sembrano essere particolarmente di moda. Vengono riposte grandi speranze in Mastodon, un clone federato di Twitter che replica in larga parte l'esperienza utente e l'interfaccia di un software progettato per estrarre dati dagli utenti e farli interagire in maniera rapida, conflittuale e tossica di modo da massimizzare l'engagement e l'attenzione. La maggior parte di queste scelte di design sembra non esser stata messa in discussione. Questo non sembra comunque essere un problema dato che la maggior parte delle istanze sono popolate o da persone LGBTQ+ o attivisti di sinistra o hacker. E ovviamente fascisti: neo-nazi, suprematisti bianchi, libertari di destra e così via. Siccome non gli è consentito organizzarsi su piattaforme commerciali, fanno uso di qualsiasi tecnologia che riesca a dargli libertà dal sistema di controllo della società liberale. Uno scenario per cui Mastodon sembra non avere contromisure efficaci e una conseguenza inaspettata della creazione di questo software. Come sempre, il creatore della tecnologia non sarà ritenuto responsabile per aver dato uno strumento utile ai fascisti. Inoltre non sembra esserci evidenza che Mastodon sia in grado di frammentare il controllo sulla rete tra le varie istanze: tolte le bolle isolate di estremisti di destra, le istanze di grosse dimensioni sono pochissime e la distribuzione è estremamente squilibrata, con le istanze piccole fondamentalmente inutilizzate se non da una manciata di utenti.

La prospettiva hackerista contro la prospettiva olistica: Mastodon vs FairBnB

Mastodon rappresenta un ottimo caso di studio per l'ingenuità della prospettiva hackerista. Per comprendere però perché la prospettiva hackerista è davvero problematica, penso sia utile guardare ad un altro esempio di software che punta alla liberazione ma che approaccia il problema da un punto di vista molto differente: FairBnB.

FairBnB è un tentativo di creare un'alternativa solidale e non distruttiva ad AirBnB. L'idea è di usare un modello di business più equo, investendo in comunità locali, rispettando la data ownership e provando a costruire una piattaforma di proprietà sia dei lavoratori che degli utenti. Al momento della stesura dell'articolo FairBnB non è ancora aperta al pubblico ed è troppo presto per dare un giudizio sulla sua efficacia, ma al momento non è ciò che ci interessa.

Mastodon e FairBnB si posizionano agli estremi opposti dell'arco della liberazione tecnologica. Se Mastodon inizia il suo viaggio con una domanda tecnica, FairBnB lo inizia con una domanda politica e sociale. “Possiamo rendere Twitter federato per liberarne gli utenti?” vs “Possiamo liberare le città dai danni creati dal turismo di massa?”. Una volta data risposta alla seconda domanda, è facile implementarne la risposta con strumenti tecnici. Non è però vero il contrario: una volta prodotto un artefatto tecnologico come Mastodon è impossibile ridefinirne le politiche. Un'analisi critica dell'impatto politico di Mastodon probabilmente lo giudicherebbe come inutile, ma un'attitudine simile non verrebbe mai davvero abbracciata dallo sviluppatore principale o dalla community, perché troppo ardua da contemplare.

Non è un caso che questi due artefatti software differiscano così tanto nelle intenzioni e nell'implementazione. Arrivano da due mondi con ideologie contrastanti. Mastodon rappresenta la prospettiva hackerista e come abbiamo discusso prima, si affida per fede al potere liberatorio della tecnologia. Di contro, FairBnB proviene da un'analisi più tradizionale delle dinamiche di potere nelle economie locali e globali, da una critica al capitalismo delle piattaforme e da un desiderio di creare servizi comunitari, tutte caratteristiche di quegli ambienti di sinistra che cercano di costruire una relazione virtuosa con la tecnologia digitale. Tuttavia la consapevolezza che la riappropriazione tecnologica possa essere utilizzata come arma contro il Capitale sta crescendo di giorno in giorno: FairBnB rappresenta uno degli esempi di questo rinnovata alleanza tra tecnologia e la Sinistra.

Fine della parte 1: La parte due, contenente una pars construens, seguirà a breve.