I Tech Worker americani si stanno sindacalizzando

Fuori dagli USA se ne parla poco ma nell’ultimo anno, complice l’elezione di Trump, il vento nella Silicon Valley è cambiato. Questa è sempre stata ideologicamente contesa da una parte da anarco-capitalisti e libertari, galvanizzati da figure carismatiche come Elon Musk e Steve Jobs o meno carismatiche ma più apertamento politicizzate, come Peter Thiel o Zoltvan Istvan. Dall’altra parte ci sono i giovani liberal, forgiati in quelle fucine di fanatismo auto-referenziale che sono le università americane da alcuni decenni.

Tuttavia queste ideologie, calate dall’alto dalle élite, nel corso degli anni hanno alimentato una sempre più forte dissonanza tra quella che è la presunta missione della Silicon Valley e quelle che sono le realtà materiali in cui sono immersi i lavoratori. Queste dissonanze, queste contraddizioni, non sono più solo l’argomento di discussione di piccole comunità su internet o di giornalisti e filosofi completamente esterni al mondo Tech. Stipendi alti, benefit, birrini al venerdì coi colleghi e piscine di palline in cui nuotare nella pausa caffè non bastano più per sopprimere lo scetticismo di milioni di programmatori, analisti, tester, designer e sysadmin.

“La nostra missione è creare un prodotto che migliori le condizioni di vita di milioni di persone”: se lo sono sentiti dire in tanti, duranti i colloqui. Poi al primo giorno di lavoro un collega gli ha spiegato come funziona il codice che cerca di massimizzare le probabilità che un utente clicchi su una loro pubblicità. Il tutto costruito sulle analisi dei data scientist che hanno profilato l’utente usando informazioni sensibili e su studi di design, schemi di colori, forme e flussi di interazioni pensate per catalizzare l’attenzione dell’utente in maniera subliminale.

Ancora è lontana una presa di coscienza collettiva che mini alla base il muro di illusioni che la Silicon Valley ha costruito per nascondere che, alla fine dei conti, sono tutti lì per il profitto e null’altro. Profitto che verrà condiviso abbondantemente coi programmatori solo fintanto che il mercato del lavoro sarà loro favorevole. Tuttavia sulle contraddizioni più evidenti, qualche scintilla inizia a vedersi.

Esempio lampante è la vittoria ottenuta dai lavoratori Google sulla direzione la quale, alcuni giorni fa, ha dichiarato di non voler continuare il programma di ricerca congiunta con il Dipartimento della Difesa Americano. Il programma prevedeva lo sviluppo di sistemi di puntamento automatico per droni, un’applicazione considerata non-etica dalla maggiorparte dei dipendenti Google, che hanno fatto forte opposizione.

Di questo fatto non è tanto interessante l’implicazione etica o il risultato materiale (la commessa miliardaria la vincerà un’altra azienda o il DoD troverà il modo per fare uso delle tecnologie Google per altre vie), ma la dinamica con cui si è ottenuto questo risultato: assemblee di dipendenti in aperta contrapposizione con la direzione, reiterati appelli, numerose dimissioni spontanee, mesi di scontro diretto e indiretto e alla fine, un passo indietro da parte della direzione. Ciliegina sulla torta, il rilascio da parte di Google di una sorta di manifesto etico per lo sviluppo delle AI, evidente segno della necessità di compensare la pubblicità negativa ricevuta dalla concessione fatta ai lavoratori.

Questo però è solo uno dei tanti avvenimenti simili avvenuti nell’ultimo anno e segno di un trend che è destinato a crescere. A cavalcare quest’onda di malcontento è la Tech Worker Coalition, un’organizzazione che riunisce numerosi gruppi spontanei in numerose aziende della Silicon Valley, Seattle e altri hub tecnologici americani. Il loro obiettivo? Supportare l’organizzazione dei lavoratori, gruppi di studio, attività di protesta. Il loro nome ricorre spesso in tutti gli articoli sull’argomento. La loro comunicazione è leggera, scevra della pesantezza della sindacalismo tradizionale e usa gli stessi termini delle ideologie che fino ad ora hanno portato alla divisione dei lavoratori. L’argomento meriterebbe un articolo dedicato poiché a mio parere sono un esempio positivo della “nuova sinistra” che si vorrebbe vedere in Europa.

Questa nuova ondata di sindacalismo non differisce soltanto nella comunicazione, ma anche nei metodi. Le sfide che deve superare sono diverse perché il mondo continua a cambiare ma sopratutto perché i Knowledge Workers e in particolare quelli del settore Tech, hanno problemi radicalmente diversi dalle altre classi lavoratrici. A questo si somma un diffuso disinteresse per la politica e un anti-intellettualismo che, seppur in crescita in tutto l’Occidente, diventa spesso elemento identitario in quanto contrapposto al pragmatismo che distingue le discipline ingegneristiche e la cultura “hacker” in senso lato.

Spingere per stipendi più alti non è chiaramente un argomento di interesse: gli stipendi nel settore sono relativamente alti. Avere orari più equilibrati? Sicuramente per alcuni è una necessità ma più spesso è la natura del lavoro stesso a richiedere una flessibilità che spesso sfora nello sfruttamento. Una battaglia che ha senso d’essere ma che ancora non fa presa perché straordinari e weekend sono fortemente normalizzati. Ambienti di lavoro più salubri? Molti programmatori hanno scrivanie, sedie, schermi e computer che costano migliaia e migliaia di dollari. Hanno frutta e verdura gratis, pranzi salutari preparati nella mensa aziendale, una palestra con spa e piscina nel sotterraneo e un servizio massaggio. Non scenderanno in strada per una sindrome del tunnel carpale.

Tutti questi elementi potrebbero far pensare che, data la loro condizione privilegiata, i tech worker non siano sindacalizzabili e che siano più propensi ad allinearsi ideologicamente e nella quotidianità con la direzione piuttosto che solidarizzare con gli inservienti che puliscono gli uffici di notte. Tuttavia rimane una verità materiale innegabile: loro sono dipendenti, sono lavoratori come gli altri. Il fatto che abbiano una vita più facile non cambia questo fatto, lo nasconde soltanto.

Per rompere questa narrativa della divisione, il nuovo sindacalismo usa idee e parole diverse e la più potente, in questa prima fase, è la seguente: “Ti è stato promesso che avresti cambiato il mondo, che avresti fatto del bene usando i potenti mezzi che la tecnologia ci mette a disposizione. Il mercato è solo un male necessario ma se la tecnologia della tua azienda è la migliore, il mercato la premierà e potrai avere un impatto positivo sulla vita delle persone. Con questa scusa ti hanno tenuto davanti allo schermo nei weekend e ti hanno fatto scrivere codice per cose che nulla c’entrano con quello che volevi fare nella vita. Ora però ti accorgi che la tua azienda, così come tante altre, sta avendo un impatto negativo sul mondo: Facebook, Amazon, AirBnB, Foodora, Deliveroo”.

Riconnettere il lavoratore con la realtà materiale del fatto che il suo lavoro è finalizzato esclusivamente al profitto, è il punto di partenza. Dopo verrà la costruzione della solidarietà con gli altri lavoratori, da sempre percepiti come alieni (dall’alto di un privilegio di cui parecchi si vergognano). La priorità però rimane fare leva sulle ambizioni che i Tech Worker, in quanto privilegiati, possono permettersi e usarle prima per creare coscienza del loro ruolo nella società e poi per creare un cambiamento positivo per tutti.

La nostra società è sempre più dipendente dalla tecnologia ad ogni livello e questo concentra sempre maggior potere potenziale nelle mani di una classe di persone numericamente esigua rispetto al totale della popolazione. Lo sciopero o il boicottaggio di una manciata di sistemisti o di programmatori radicalizzati può avere un impatto a livello mondiale che un qualunque sciopero in una miniera o in un’acciaieria non ha mai avuto. Con questo non voglio suggerire che esista un sindacalismo di Serie A ed uno di Serie B: bisogna combattere per i diritti di ognuno, ma alcuni possono contribuire alla lotta in maniera più “efficace” di altri. Questa è sempre stato vero, ma è ancor più vero oggi poiché la tecnologia, per l’ennesima volta, ribalta le condizioni materiali e quindi gli equilibri di potere come già successo tante volte nella storia umana.

E in Italia? Il sindacalismo nell’ambito Tech latita, nonostante alcune iniziative locali. Il modello tradizionale è per ora l’unica opzione a disposizione dei lavoratori che, in alcuni contesti decidono di percorrerlo. Non è però un fenomeno nuovo e nel corso di decenni di settore IT in Italia, non sembra aver avuto adesioni sufficienti, in particolare al di fuori degli ambienti dove è comune il body rental. Al contrario, nella mia esperienza personale, la quasi totalità dei tech worker italiani sono apertamente ostili a qualsiasi forma di sindacato, in linea col trend ideologico dominante nel Bel Paese. Il sindacato è percepito come una reliquia del passato, incapace di parlare ai giovani, figuriamoci a quelli cresciuti in un ambiente che importa cultura e ideologia dall’altra parte del mondo.

Presidio all’UBIS di Lampugnano (MI)Presidio all’UBIS di Lampugnano (MI)

Da un lato le condizioni sono molto più mature per un cambiamento: i Tech Worker in Italia in generale sono pagati molto meno delle controparti estere e un mercato del lavoro meno favorevole limita il fiorire di benefit e trovate originali per distrarre il lavoratore dalla propria condizione di sottoposto. D’altro canto però manca la concentrazione dei lavoratori che è presente in USA: i giganteschi campus con migliaia di impiegati offrono spazi di discussione e di organizzazione che in Italia sarebbero duri da raggiungere. Le multinazionali poi hanno spesso e volentieri network di comunicazione interna in cui prolifera il dibattito. In Italia queste grandi realtà sono poche, per caratteristiche del settore IT e dell’economia italiana in generale. Perciò, a mio modesto parere di persona per nulla esperta dello scenario sindacale italiano ma profondamente immerso nelle comunità IT nostrane, nel breve termine difficilmente vedremo grossi impatti in conseguenza di quello che sta succedendo dall’altra parte dell’oceano.

Non per questo quello che sta succedendo in USA non ci riguarda. Le aziende in cui si portano avanti istanze di malcontento sono spesso presenti anche sul nostro territorio, vendono servizi che utilizziamo tutti e che danno forma alla nostra società e al nostro mercato. Una maggiore coscienza del Tech Worker americano che si oppone a scelte aziendali tossiche per gli utenti e la società può avere un impatto diretto sulla nostra vita e questo è un fenomeno nuovo che nella narrativa attuale sulla tecnologia è totalmente ignorato.

Per approfondire: Technology and the Worker